|
Gli
Umiliati a Viboldone
di Mauro Tagliabue
Guido da Porta Orientale
A differenza di quanto avviene nel caso di un'altra importante fondazione
umiliata milanese, la casa di Brera, ritenuta la più antica del
secondo ordine, nella quale, fin dal suo primo emergere nella documentazione,
troviamo una fraternita di uomini e di donne "qui et que sunt humiliati
per Deum", nei più antichi documenti sulla "domus de
Vicoboldono" non si rinvengono espressioni che ne determinino esplicitamente
la genesi umilata, fino al suo apparire nella bolla con la quale Innocenzo
III, subito dopo le conferme del terzo ordine (7 giugno) e del secondo
(10 giugno), approvò il primo ordine degli Umiliati il 16 giugno
1201, assegnando a Viboldone, accanto alle case di Rondineto, di Vigalone
e di Lodi, una posizione preminente e di guida al vertice dell'Ordine
stesso. Nè il documento del 4 febbraio 1176, nè quello del
18 luglio 1181, rogati entrambi dal notaio milanese Giovanni Coallia,
e tanto meno la bolla di Urbano III del 1186 - unici superstiti di una
documentazione naufragata quasi in toto o dispersa nei più svariati
fondi archivistici dopo la soppressione dell'Ordine nel 1571 - rendono
esplicita l'appartenenza di Viboldone al movimento umiliato, anche se
non mancano di rivelarci la presenza di una comunità di religiosi,
"congregatio fratrum", impegnata nella costruzione di una chiesa
(S. Pietro) incardinata in un organismo istituzionale (così lascia
intuire l'espressione "secundum vestram istitutionem", ricorrente
nella bolla del 1186) e protesa all'ampliamento del patrimonio fondiario
che quei "fratres", fin dal 1176, già possedevano "in
ipso loco" di Viboldone. Ma proprio questo primo documento del 4
febbraio 1176 contiene la prova inoppugnabile che la "congregatio
fratrum", insediatasi verosimilmente a Viboldone ancor prima che
si desse avvio in quell'anno alla chiesa, era emanazione del movimento
di cui presto sarebbe divenuta una delle principali e più significative
espressioni. Nel suo progetto edilizio e di ampliamento patriomoniale,
tale comunità o "congregatio" trova infatti ampia disponibilità
e sostegno economico in Guido da Porta Orientale, che del movimento umiliato
milanese è il principale esponente, se non addirittura il promotore.
Pur prescindendo dal titolo di beato con il quale verrà venerato
presso gli Umiliati dei secoli successivi e dal fatto che venga ricordato
anche quale "fundator ordinis nostri", Guido da Porta Orientale
è senz'altro figura di primo piano nel contesto del movimento che
portò all'istituzione del tripartito ordine degli Umiliati. Basti
dire che a lui, in primo luogo, è indirizzata la lettera innocenziana
del 7 giugno 1201, con la quale il papa disciplinava la "forma vitae"
o "propositum" cui intendevano ispirarsi gli Umiliati del terzo
ordine, dei quali Guido si era fatto portavoce in precedenti abboccamenti
con i delegati papali, recandosi anzi a Roma per chiarire con il pontefice
quel progetto di vita. Non solo, ma a capo di tutto l'Ordine egli si presenta
ancora nel 1209: a nome di Guido da Porta Orientale e di tutti gli Umiliati
e Umiliate del regno d'Italia agiscono infatti i ministri della braida
del Guercio e della casa di S. Maurilio in Milano che il 3 luglio di quell'anno
sovrintesero alla vendita di un sedime in Pioltello alle "sorores"
umiliate di Rancate in Milano, per poi acquistare, con le 26 lire ricavate,
una casa, sempre a Pioltello, per le Umiliate ivi residenti. Ma Guido
è anche l'esponente di una nobile famiglia milanese di origini
capitaneali, i da Porta Orientale, al vertice della vita cittadina fin
dal XI secolo, quando con Arnolfo (1093-97) si imposero persino sulla
cattedra arcivescovile di Milano. Lungo tutto il XII secolo, poi, vari
membri di questo gruppo familiare appaiono attivi sul mercato immobiliare
quali acquirenti di decime o come esecutori testamentari, a segno del
grande prestigio raggiunto dalla famiglia. In tale veste incontriamo il
6 giugno 1152 lo stesso padre di Guido, di nome Guido come il figlio.
Un'omonimia, questa, che ha provocato notevole confusione sull'origine
del movimento umiliato, ricondotta da alcuni cronisti del Quattrocento
al tempo del soggiorno milanese di san Bernardo di Chiaravalle, quando
per certo il padre di Guido era vivente, mentre si sa con pari certezza
che il 1° giugno 1174 era già morto: in tale data i fratelli
Aderardo e Guido sono infatti ricordati come "filii quondam item
Guidonis qui dicebatur de Porta Orientale", in una investitura beneficiaria
di terre nel territorio di Linate in favore di Corrado Menclozzi, che
le aveva precedentemente permutate con i due fratelli. Anteriore di un
biennio, peraltro, è la sua ultima citazione da vivo, in un documento
rogato nel palazzo arcivescovile di Milano il 1° deicembre 1172, allorchè
"Guido figlio di Guido da Porta Orientale" rimise le decime
su alcuni luoghi del Varesotto nelle mani dell'arcivescovo Galdino che,
dietro compenso di 160 lire d'argento, le concesse a Pietro da Bussero,
arciprete di S. Maria di Monte Velate sopra Varese. Ma attraverso la testimonianza
del documento appena citato vediamo profilarsi rapporti di estremo interesse
- e in grado forse, se approfonditi, di gettar nuova luce sulle origini
del movimento umiliato - tra lo stesso arcivescovo Galdino e l'omonimo
figlio di Guido, che, alla distanza di un quadriennio da questa sua prima
attestazione documentata (l'ultima è del 1209), ritroviamo presente
nell'atto rogato il 4 febbraio 1176 in Milano nella casa dell'arcidiacono
Uberto Crivelli, quando furono poste le premesse per la costruzione della
chiesa di S. Pietro di Viboldone. In quella circostanza svolse un ruolo
di grande rilievo: "dedit guadiam", ossia il "nobilis et
potens vir" Guida da Porta Orientale, "qui fuit magnus capitaneus
timens Deum et qui construxit quamplures domus religiosorum et maxime
domus fratrum humiliatorum", si fece garante della promessa di pagamento
con la quale, liberamente, i "fratres" di Viboldone si impegnavano
a versare un fitto a Giuliano, prevosto della pieve di S. Giuliano, in
riscatto della decima dovutagli in forza dell'appartenenza di Viboldone
a quel piviere. L'erezione di una nuova chiesa, affiancata da una comunità
di religiosi, nel territorio della pieve, poteva rappresentare un grave
rischio per l'integrità della giurisdizione plebana: a seguito
delle protezioni che senz'altro nn sarebbero mancate, anzi già
si intravedevano, e ancor più per l'attrazione spirituale della
comunità stessa, ben presto ne sarebbe derivata una "diminutio
capitis" nella persona del pievano o, quanto meno, una forte sottrazione
nei compensi economici legati alle oblazioni, ai diritti di primazia,
di sepoltura o di decima qualora se ne fosse ottenuta l'esenzione - cosa
nient'affatto improbabile - per altre vie. Tutte preoccupazioni che indussero
il pievano a un primo diniego, in ottemperanza, altresì, al principio
per cui "nulla ecclesia in preiudicium est alterius construenda".
poi, però, le resistenze del pievano furono vinte. Egli cedette
di fronte alla disponibilità di Guido, che generosamente garantiva
per quelli di Viboldone, ma ancor più, forse, perchè toccato
dai profondi sentimenti religiosi di quel "civis Mediolanensis":
"Pia ductus intentione", dice di lui la lettera contenente l'approvazione
papale concessa da Benedetto XI nel 1304 a seguito di precedenti conferme
dell'accordo stipulato nel 1176 in casa dell'arcidiacono milanese Uberto
Crivelli. Da un lato il pievano rinunciò allo "ius decimationis"
su Viboldone; in compenso ottenne dalla liberalità dei "fratres",
o meglio di Guido, un fitto proporzionale all'aumento dei beni che avrebbero
acquistato nel territorio di Viboldone, nonchè il tacito riconoscimento
della propria supremazia giurisdizionale nell'ambito del piviere. L'importanza
di quell'accordo, oltre che dal luogo e dalla presenza di Guido che si
fa garante, traspare dalla partecipazione di personaggi di tutto rilievo
e assai vicini agli ambienti della curia arcivescovile: Alberico da Soresina,
prete ordinario del capitolo maggiore del duomo, o ancora il noto ed esperto
giurista Anselmo dell'Orto, assi vicino agli arcivescovi Galdino (1166-76)
e Algisio (1176-85), dai quali venne frequentemente utilizzato come delegato
o consigliere in operazioni economiche e sentenze. Vi compare, quale fideiussore,
anche un da Busnate, Giovanni, personaggio di spicco - aveva ricoperto
il consolato di giustizia nel 1172 - di una famiglia vicinissima all'ambiente
dei "fratres" di Viboldone, se a essa appartiene il primo membro
della nuova comunità di cui ci sia stato tramandato il nome: Obizone
da Busnate, "canonicus suprascripte ecclesie Sancti Petri",
intervenuto il 18 luglio 1181 all'atto con il quale "illi de Vicoboldono",
delle 105 lire pattuite cinque anni prima, versavano al prevosto Giuliano
83 lire e mezza per i beni già acquistati, riservandosi di pagare
le rimanenti 21 lire e mezza quando avessero acquistato "omnes alias
res que sunt in ipso loco de Vicoboldono". Sulla base di questi ampi
consensi, al centro di un patrimonio in rapida crescita se già
nel 1181 più di tre quarti dell'intero territorio di Viboldone
era stato acquistato, col favore nondimeno dell'esenzione dalla decima,
si delinea la primitiva costruzione di quella che sarà la chiesa
di S. Pietro. Quando un tardo cronista del Quattrocento afferma a proposito
degli Umiliati che erano soliti investire i proventi dell'attività
laniera - largamente praticata, com'è noto, tra le loro comunità
- in acquisti di beni immobili, sembra trovare nei capitali investiti
a Viboldone dai da Porta Orientale, tramite Guido, e con la partecipazione
dei da Busnate, un precoce modello di riferimento, alla base peraltro
del fenomeno che in seguito "provocò il decadimento dello
stesso lanificio presso gli Umiliati, i quali, trasformatisi spesso in
grossi proprietari terrieri, non vedevano più la necessità
del lavoro manuale quale fonte di sostentamento e di conseguenza le comunità
monastiche finivano con l'assumere sempre più forme canonicali".
(da "L'Abbazia di Viboldone", 1990 Banca Agricola Milanese)
|