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Gli
Umiliati a Viboldone
di Mauro
Tagliabue
Una Comunità di "Fratres et Sorores"
La coesistenza di frati e di suore nella stessa "domus", vietata
in via generale dai canoni, ma ammessa presso gli Umiliati, pur con le
opportune precauzioni, è documentata anche per Viboldone, benchè
tardivamente, a partire dalla seconda metà del Duecento. E' del
1276 un documento, sul quale ritorneremo, che vede un intero nucleo familiare,
quello dei Polvale, con padre, madre, figli e nipoti, fare un atto di
dedizione alla "ecclesia seu canonica seu domus humiliatorum"
di Viboldone, per condurvi la propria vita "sicut fratres et sorores
illius domus". Un decennio dopo, nel 1287, sarà ancora uno
di costoro a ricordare la propria madre, Belfiore, come "devota"
vivente nella casa di Viboldone. Più tardi, nel 1310, è
addirittura la nipote di un maestro generale, Benvenuta, "professa
dicte domus", a venir ricordata dallo zio, fra Guidotto Riboldi,
che dimessosi dal generalato si era ritirato a Viboldone e, prossimo verosimilmente
a morire, volle disporre della rendita derivantegli da un mulino sul Lambro
a Melegnano in favore della comunità, oltre che della prediletta
nipote: della porzione a lei riservata, "soror" Benvenuta avrebbe
potuto disporre con piena libertà per l'acquisto di vestiti o per
cure in caso di malattia, previa licenza tuttavia del preposito. Del permanere
di "sorores humiliatae" a Viboldone si ha notizia ancora dopo
che, nel 1327, Giovanni XXII non solo vietò l'ulteriore convivenza
di frati e di suore nello stesso edificio, ma persino la contiguità
di monasteri maschili e femminili. L'ultima indicazione ci viene da un
elenco di case umiliate risalenti al 1344: nella "domus de Vicoboldono"
dimoravano 28 "fratres", 7 "sorores", 8 "famuli".
Poi più nulla. Presumibilmente, anche questa comunità femminile,
al pari di quelle esistenti in altri luoghi, venne estinguendosi nel corso
del secolo XIV; il Tiraboschi, infatti, ci attesta che all'inizio del
Quattrocento non esistevano più conventi comuni di frati e di suore.
Sull'organizzazione e il tenore di vita della comunità femminile
di Viboldone siamo assai poco informati. Si può tuttavia presumere,
in analogia ad altre comunità doppie, che a essa fosse preposta
una "ministra o magistra" e vi si praticasse una vita di preghiera
scandita dalle ore canoniche in alternanza con il lavoro manuale, "pro
sustentatione vitae suae". L'"exercitium manuale" di maggior
assorbimento dovette essere senz'altro quello della lavorazione della
lana, specialmente nelle sue fasi più delicate. A suore dedite
all'opus lanae, dalla pettinatura alla filatura, alla tessitura, rimanda
tra l'altro la preziosa serie di quadretti, stupendi nella lore semplicità
espressiva, che istoriano nei codici ambrosiani la conaca minore di fra
Giovanni di Brera del 1421. In una parola, delle "sorores" di
Viboldone potremmo ripetere quanto scrive Umberto di Romans delle Umiliate
in generale: "De lana et lino operantur assidue et fusum manibus
apprehendunt". I pannilani inviati alla comunità cistercense
di Morimondo, distrutte e saccheggiata dai Pavesi nel 1237, sono un'ulteriore
conferma dell'impianto di un lanificio anche tra gli Umiliati e le Umiliate
di Viboldone.
Si sa per certo che all'elezione del preposto partecipavano anche le "sorores",
almeno fino al 1247, insieme alla componente maschile della comunità,
chierici e fratelli laici. Questi ultimi, esclusi dagli atti capitolari
soltanto a partire dal 1374, costituiscono un gruppo assai consistente
entro la "domus" di Viboldone. Nel 1258 se ne contano almeno
35; a essi vanno aggiunti 12 chierici (di cui sei sacerdoti, due diaconi
e quattro suddiaconi) per non avere che un quadro comunitario ancora lontano
- pensiamo - dalla sua completezza. La rivela, invece, un capitolo del
1302, al quale intervennero. "preter novem", tutti ifrati professi
con diritto di voto: siccome i presenti risultano 29, a 38 membri doveva
ascendere l'intero nucleo comunitario. E di altri 29 frati, "omnes
professi", costituenti "plus quam due partes", ossia i
due terzi del capitolo conventuale, risulta formata la comunità
nel 1310. Mentre,verso la metà del Trecento, il numero di "fratres"
dove essersi stabilizzato, come si è visto, intorno alle 28 unità
di essi, almeno 16 dovevano essere chierici, secondo quanto nel frattempo
erano venute stabilendo le costituzioni dell'Ordine.
Tra le prerogative per essere ammessi allo stato chiericale vi era quella
di saper leggere e cantare. Ma a seguito delle disposizioni costituzionali
emanate dal maestro generale Beltramo (1309-17), l'accesso al chiericato
da parte dei fratelli laici non venne più consentito e, di riflesso,
negato il passaggio a fratello laico professo da parte dei comnversi.
Quest'ultima categoria è documentata anche per Viboldone: sono
tali il frate Monte e il frate Ambrogio, entrambi conversi, che l'8 settembre
1276 intervengono in rappresentanza della "domus de Vicoboldono"
a un contratto di permuta con il monastero di Chiaravalle, dando in cambio
del diritto di decima sulle terre di Civesi e Rancate un bosco nel territorio
di Sestogallo (l'attuale Cascina Sestogallo), dove Chiaravalle intendeva
portare un acquedotto e dove voleva trasformare le terre in prato. Accanto
ai conversi spuntano i "famuli" o "familiares" ad
arricchire ulterirmente il già variegato quadro della comunità
che, pur obbedendo a una concezione verticistica della scala sociale,
integrava al suo interno personalità, categorie, mentalità
e culture tanto diverse, riunendo comunque tutti nel momento cardine dell'elezione
del preposito, anche - almeno nel periodo iniziale - le componenti femminili.
Di questa microsocietà potremmo tranquillamente ripetere, senza
timore di errare, quanto papa Alessandro IV, il 23 novembre 1258, scriveva
al re di Francia per indurlo ad accogliere anche nel suo regno gli Umiliati,
"in provincia Lombardie potissimum dilatati"; si guadagnano
da vivere con il lavoro delle proprie mani, distribuiscono le elemosine,
praticano l'ospitalità, predicano la parola di Dio.
(da "L'Abbazia di Viboldone", 1990 Banca Agricola Milanese)
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