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Arnold
Esch
I mercenari svizzeri in Italia.
L'esperiena delle guerre milanesi
(1510-1515)
tratta da fonti bernesi
Alberti Editore
per la
Società dei Verbanisti
Verbania-Intra, 1999.
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Dopo
la vittoria, la vita quotidiana dell'occupazione. Politica d'occupazione,
atteggiamenti sconsiderati, ostilità. Gli Italiani visti dagli
Svizzeri. Gli Svizzeri visti dagli Italiani. Finanziamento delle truppe,
ammontare della paga, condizioni di vita. Riciclaggio della paga e del
bottino con l'acquisto di articoli di lusso, effetti sulla domanda in
Svizzera.
Ritorniamo all'Italia, causa di tutta questa concitazione, perché essa era
diventata il campo di battaglia preferito delle grandi potenze europee.
La spedizione del 1512 aveva fatto del ducato di Milano, in pratica, un
protettorato della Confederazione. All'euforia della vittoria subentrò
ora la vita quotidiana dell'occupazione. Ecco la lista trionfale delle
conquiste: "le grandi città si sono arrese tutte…, cioè
Meyland (Milano), Genow (Genova), Cremona, Playsantz (Piacenza), Parma,
Kum (Como), Noware, Alezandry e molte altre città di cui ci sfugge
il nome". Ma ora se ne sente il peso. Se, da una parte, Milano era
caduta, dopo la vittoria di Novara, ancora più profondamente in
balìa dei confederati, per cui non scorgevano più nessun
nemico intorno a loro ("… che non abbiamo e non conosciamo più
nessun nemico"), dall'altra non accennavano a diminuire le mene del
re di Francia e dei suoi seguaci tra i nobili milanesi.
Per i non-italiani il gioco politico delle famiglie nobili milanesi (di
cui i confederati diffidavano più che non del "poppel",
del popolo), era difficile da capire. Il desiderio di intervenire con
rabbia, e di farla finita, si manifestò nella valutazione della
alternativa se i confederati dovessero prendere ostaggio o meno anche
tra il ceto dirigente milanese. Non faceva parte di un'efficiente politica
di occupazione, "portare nel nostro paese parecchi dei migliori (cioè
probabilmente dei più cattivi, perché "besten"
nell'originale può essere letto, in tedesco, "bösesten")
e più diffidenti milanesi, come ha fatto anche il re (di Francia)
in molti periodi?". Cosa ne pensava Berna?
Rientra nel contesto di tali considerazioni un documento insolito, di
poco anteriore, che getta una caratteristica luce sul desiderio di capire
le vicende politiche di quel paese. Un semplice biglietto, del 1500 circa,
riporta succintamente informazioni sulla posizione scelta da alcune personalità
del ducato di Milano, tra Lodovico il Moro e il re di Francia, il loro
supposto patrimonio, il numero dei figli: "Quello di Cuom (Como)
si chiama Johannes Baptista, (il suo patrimonio) vale 4000 ducati e due
fabbricati, ha tradito il castello di Mattarella e ferito il capitano
nel corso di questo tradimento; e prima era stato nel Vallese e ha portato
con sé soldati e pagati con i propri soldi per compiere il tradimento;
'uxor suua fuit ducis…; non habent pueros. Ambo recesserunt cum fratre
ducis…; non habet pueros'.
Petrus Anthonius de Loys domo doctor de Cuom, con denaro è riuscito
nel Feltlin ad avere mercenari, e anche che il Feltlin abbandonasse il
re; egli scrive anche al Moro e viceversa; è stato il vero mandante
del tradimento; 'valent bona XIII ducatos; habet quinque pueros'.
Meiland: 'Johannes Angelus de Poris fugit prima vice cum Moro, et fecit
venire ligam grisam et omnia que facta sunt per pratickam fecit. Valent
bona quinque milia; habent III pueros".
"Iacobus Mantega de Cum fecit sicut Petrus Anthonius. Valent bona
III; non habet pueros".
"Iohannes Petrus Rusca fuit capitanius in Belitz et tradit regem
et Belitzen; est de Cum; non habet pueros nec uxorem. Valent bona sua
octa milia ducatos. Dedit fugam cum cardenali"
"Fridericus Galleranus von Meiland tradit regem et dedit sufragium
Moro, id est er hat lib und guot zuo im gesetz (egli gli ha dato vita
e patrimonio). Habet pueros; valent bona VI milia tugatos".
Questo biglietto sembra innocuo, ma è sospetto, come se un informatore
segreto volesse indicare furtivamente i punti vulnerabili: come si è
comportato l'uomo? Dove è ricattabile? Vale la pena prenderlo in
ostaggio? Quale sarà il suo "valore" nel caso di riscatto
dalla prigionia o di ritorno dal confino?
Il profilo di quella che potrebbe essere definita una politica d'occupazione
(stando alla lettera, si trattava solo dell'adempimento di un patto difensivo,
ma in effetti si andava, appunto, oltre) si può desumere da osservazioni
del tipo: aver "trovato che il popolo è giusto e buono, e
che volentieri ci starebbe, ma che la nobiltà ha troppo peso per
loro ed è più forte": così sarebbe stato ad
Asti, e la stessa considerazione varrebbe anche per Milano. Che si credesse,
trovandosi in loco, di comprendere la situazione meglio delle lontane
autorità svizzere, lo dimostra già la raccomandazione rivolta
in patria "di non accettare intese con i signori di Milano, prima
di sapere da noi, tutto per bene e veritiero, come si presenta la situazione
in questo paese".
Ma in sostanza ci si limitava poi a rafforzare il dominio del giovane
protetto Massimiliano Sforza e a sostenere la sua dura politica fiscale
diretta a estorcere dai tormentati sudditi ingenti somme per pagare il
tributo richiesto dai protettori: "E' stato imposto un grosso, pesante
tributo a questo paese…, perciò si deve provvedere affinchè
Lor Signori siano pagati, in quanto, altrimenti, il diavolo se lo porta
via", scrive Albrecht vom Stein, nel suo solito tono impertinente,
al Cancelliere comunale di Berna. Bastava allora una semplice lettera,
da parte del rappresentante bernese, al tesoriere ducale per far mettere,
senza tante storie, due altri bernesi sulla lista delle pensioni di Milano.
Sporadici casi di sfruttamento si ebbero anche là dove la presa
dei confederati era diretta come a Lugano e Locarno, castelli che all'inizio
del 1513, dopo un assedio durato molti mesi, erano stati finalmente tolti
ai Francesi e sottoposti al dominio comune dei XII confederati: "Sappiate
una volta tanto qualcosa di più preciso sulla condotta di Kaspar
Göldli", si sente dire il Consiglio di Berna da Sebastian vom
Stein, "come egli tratta la povera gente…; mi è stato
detto che finora egli ha incassato circa ottomila fiorini, e questa è
la minima parte delle entrate, tormentando inoltre la gente povera".
Già per attuare un assedio prolungato, i confederati erano poco
adatti, infatti durante l'assedio di Locarno, incominciato subito dopo
la spedizione di Pavia, il capitano supplicava disperatamente il Consiglio
nella lontana Berna: "Illustri Signori, scrivete perché essi
restino con me, e non vadano via durante il mio congedo". Altrettanto
malvolentieri gli Svizzeri svolgevano ora, nel castello di Milano, il
servizio di occupazione, e l'umore non sarà stato il migliore.
Notavano con irritazione alcuni accenni di ostilità da parte italiana
e segni di mene francesi, si vedevano "cacciati con i sassi dalla
porta", e per il resto si sentivano in questo castello - "quando
volessero farci del male" - in trappola. Per discolparsi, Balthasar
Finsternau richiamava preventivamente l'attenzione del Consiglio di Berna
sulle difficoltà del momento, chiedeva regole di comportamento,
orecchiava timorosamente in direzione della città; non sentendo
niente, si poteva essere già contenti: "Non abbiamo ancora
né visto né sentito alcun rumore nella città di Milano,
il che ci dà tanto sollievo che i nostri stanno ancora bene, se
Dio vuole, perché se a loro fosse accaduto qualcosa in qualche
modo, da tempo ci sarebbe stato un grande rumore a Milano".
Da osservatori pacati come Peter Falk, rappresentante della Confederazione
e residente a Milano, il Consiglio bernese seppe però che gli uomini
della forza di occupazione, "di cui parecchi hanno espresso parole
assai improprie contro il duca, e inoltre sono privi di tatto", non
erano senza colpa per l'affiorare di certe tensioni. E poi dà un
assaggio di tali "parole improprie: il duca non è il Signore,
i Signori siamo noi" (ciò era vero, ma non andava detto);
oppure: "egli ha molti buoni abiti d'oro e di seta che deve ancora
dare in pegno e vendere". Tali grossolanità furono però
capite, "perché a corte ci sono molti milanesi, e altri, che
conoscono bene la lingua tedesca e riportano queste parole; hanno parlato
inoltre spesso in questo modo, sicchè avrà potuto sentirle
anche il duca in persona"; sarebbe meglio "mandare in licenza
e congedo così rozza e riprovevole gente". E conoscendo la
lingua sciolta e impertinente delle lettere di Albrecht vom Stein, si
può ben credere che questi non si sarà esentato da osservazioni
beffarde sul duca (il quale avrebbe, con la morte del re di Francia, "perso
gioia e coraggio come se fosse morto il Messia vero e proprio").
Cosa la guardi svizzera pensasse ("quelli… che sono nella sua
guardia") del giovane duca, non era niente di buono, e dimostra -
nel ritratto, breve e cattivo, tracciato in una lettera - quanto fosse
lontana la mentalità di questi semplici soldati da quella del principe
di una corte rinascimentale: questo Massimiliano Sforza dorme durante
il giorno e vive la notte, "non fa altro che dormire per tutto il
giorno, serve poco Iddio e non ascolta nessuna messa e vive come se si
fosse data la vita da solo. Nella notte non fa altro che torneare e giubilare,
e fa come se avesse catturato degli uccelli, e tiene uno stile di vita
assai disordinato per un principe". Un bernese non condurrebbe una
vita così.
Se prima questi Svizzeri erano stati convinti di essere venuti in qualità
di soccorritori e liberatori, ben presto dovettero accorgersi, con amarezza,
di ricevere "nessun'altra ricompensa se non l'enorme tradimento in
tutto il paese". Queste animosità, non in tempi di pace ma
durante le spedizioni militari come quella del 1515, sfociarono in terribili
rappresaglie: sulla base del semplice sospetto, poi non confermato, dell'uccisione
di prigionieri svizzeri, fu massacrata e ridotta in cenere un'intera città
come Chivasso. La battaglia di Novara era appena combattuta e già
si credeva di individuare i primi segni di un'attività sovversiva:
"A Casale c'è un fabbro che ha fabbricato tremila punte di
ferro e le ha montate a Vercelli su altrettante lance; e tutto ciò
è avvenuto di nascosto, perciò non se ne può trarre
niente di buono".
Se i confederati fossero in grado di assicurare la protezione, come era
previsto dal trattato, e di difendere il ducato di Milano durevolmente
dalle rivendicazioni francesi, era ancora da vedere, nonostante le brillanti
vittorie riportate, ma il dubbio si sarebbe sciolto ben presto con la
loro rinuncia definitiva alla politica delle grandi potenze: nel 1513
a Novara sarebbero stati ancora vittoriosi, a Melegnano invece, nel 1515,
non più.
L'immagine che gli Italiani dell'epoca si facevano di questi Svizzeri
- che in certi periodi erano calati ogni anno vittoriosamente nell'Italia
settentrionale o si erano arruolati come mercenari in diversi eserciti
operanti sullo scacchiere italiano - er perciò del tutto dominata
dal loro ruolo militare. "Mai erano stà debellati da Julio
Cesare in qua". A non pochi Italiani sembravano quindi indispensabili
per vincere una guerra ed è caratteristico che in dichiarazioni
sulla forza numerica di un esercito, il gruppo degli Svizzeri spesso venisse
registrato separatamente. Suscitavano stupore, se ne rallegravano: furono
corteggiati a Venezia "… e nel corteo venivano subito dopo il
doge, sempre uno dei Signori di Venezia e uno di noi Confederati".
Tutta Roma affluì per vederli: il Papa si sarebbe fatto portare
"sul bastione fuori dal palazzo, per vederci e per darci la benedizione…,
e inoltre è stata fatta gran festa con trombe, pifferi, e spari
dal palazzo e dal Castel Sant'Angelo; ed evidentemente per tutte le strade
è corso a vederci un gran numero di gente, e ciò avvenne,
crediamo, per la gloria della Confederazione". Sicuri di sé,
non volevamno marciare dietro i Fiorentini e, sebbene contro ogni protocolli,
il Papa per questa volta lasciò correre.
Certo, non era pura ammirazione quella che provavano gli Italiani, affluiti
ai bordi delle strade, per gli Svizzeri che si aggiravano per le vie di
Venezia "con spade soto e pater nostri in mano", e per i quali
da Roma si erano inviati, preventivamente, "veri" abiti. Ammiravano
senz'altro la forza bellica di questa "gente ferocissima" che
si buttava alla cieca contro il nemico, ma che era anche in grado di tenere
una notevole disciplina ("E' alozati in Verona con tanto ordine,
che si fossero stati frati non se arìano portato meglio",
osservava un veneziano per le truppe della spedizione di Pavia, quando
entrarono a Verona), ma ciononostante erano barbari, e l'immagine degli
Svizzeri nudi che, senza far tante storie, attraversarono il Ticino a
nuoto e attaccarono Pavia all'improvviso, non corrispondeva proprio all'idea
che gli Italiani si facevano della guerra, pittura a parte. Gli Svizzeri
sapevano senz'altro vincere una battaglia campale, ma sembrava impossibile
tenerli a bada per tutta una spedizione, anche per una sola, e la struttura
federalista del comando elvetico (lui stesso disponeva di una sola voce
nel consiglio di guerra, si lamentava il bernese Albrecht vom Stein),
non era proprio fatta per impressionare i militari italiani.
Gli Svizzeri non erano amati, erano anzi temuti, come alleati, quasi quanto
lo erano come avversari: essi conducevano la guerra in modo inutilmente
sanguinoso, a differenza delle truppe mercenarie italiane, che costituivano
per così dire il capitale d'esercizio "dell'imprenditore di
guerra", e che quindi venivano risparmiate, ove era possibile. Le
carte contabili, conservate per caso, di una compagnie italiana di ventura
attiva dal 1425 al 1448, dimostrano come dei 512 uomini in totale, nell'arco
di un quarto di secolo, non ne morirono più di 25, di cui solo
15 in battaglia, gli altri "di propria morte, di buona morte";
uno addirittura "anegò in Olio in Brexana per pigliar una
anguilla in domenicha mattina"; un altro fu perso perché fu
mandato a casa "dalla moglie, cum licenzia che guarisse e tornasse
al Signore", ma egli non fece ritorno.
Erano finiti quei tempi. Quello che facevano gli Svizzeri, per gli Italiani
non era guerra come arte, o, meglio, non era "arte della guerra"
nel senso vero e proprio. Passavano perciò per aggressivi, imprevedibili
e avidi di bottino, e nelle richieste salariali erano più sfacciati
degli stessi Italiani, perché potevano permetterselo, come ammettevano
alcuni osservatori. Francesco Guicciardini, ad esempio, che nella sua
"storia d'Italia" giudica gli Svizzeri con apparente equanimità;
nelle sue lettere, invece, dà libero corso all'indignazione sulle
esperienze fatte, trattando con loro come rappresentante del Papa durante
la spedizione del 1526: "E' terribile cosa negoziare con loro".
Scorrendo le nostre liste non si penserebbe proprio che questi uomini
probi fossero in grado di ridurre altolocati diplomatici italiani sull'orlo
di una crisi di nervi! Nel far soldi, appunto, non si mostravano così
ingenui come poteva sembrare al alcuni. Il loro calcolo era semplice,
da contadini, ma efficace: "Sarebbe meglio avere due o più
mucche che una sola", e mungerne anche diverse, il "magro"
imperatore, il "ricco" re di Francia e il "grasso"
duca di Milano.
Tipi caratteristici di soldati italiani, nei quali, come amici e nemici,
s'imbattevano allora questi Svizzeri, si vedono sui muri del santuario
di Santa Maria delle Grazie sul Mincio, non lontano dal luogo dove nel
1512, al primo impatto con i nemici, gli Svizzeri avevano vittoriosamente
passato il fiume: un'adunanza spettrale di figure di cartapesta che, come
immagini votive in grandezza naturale, raccontano - in armatura, con la
spada, con il cannone - i loro destini e i loro ferimenti, ferite provocate
anche dagli Svizzeri, come espressamente sottolinea un'iscrizione, circondata
da palle di cannone incastrate nel muro: "Celta ferox, Venetus prudens,
Elvetius atrox".
"Sguizari è bon averli", era l'indiscusso principio,
e quanto a quell'epoca si guardasse a essi, si desume già dal fatto
che i "Diarii" veneziani di Marin Sanudo nominano la Dieta federale,
l'organo di coordinamento dei XIII cantoni, nella seconda metà
del 1512, dopo la spedizione di Pavia appunto, non meno di 30 volte. Era
doveroso guardare alla Confederazione durante la Dieta, svoltasi a Baden
nel settembre 1512, perché essa decise sul destino del ducato di
Milano e perché in quell'occasione nella piccola città si
accalcarono i rappresentanti delle grandi potenze! Cosa fosse veramente
questa Dieta, non si riusciva però a capirlo bene e non si voleva
neanche saperlo, come si può supporre, vista la sorprendente superficialità
delle informazioni di cui disponevano i diplomatici italiani, per solito
osservatori molto attenti. Mancava la comprensione per l'organizzazione
federalistica di questo apparato politico; la Confederazione elvetica
appariva piuttosto anarchica, perché non si riusciva a individuare
un'autorità centrale e perciò si vedeva nella Confederazione
sempre e solo una riserva di mercenari e mai veramente una potenza politica,
anche quell'unica volta in cui si mosse, fatto inaudito, senza essere
pagata e si temette momentaneamente che gli Svizzeri si annettessero il
ducato di Milano: "Voleno far Milan canton loro; …vorìano
Milan fusse in la soa liga, e uno di prinzipal capi e cantoni come è
Basilea e Costanza!".
La fame di soldi sembrava dunque essere l'unico loro movente, e si spiegava
tale avidità con la loro povertà: questi contadini vendevano
l'unica cosa che possedevano, cioè la forza fisica; "Sguizari"
chiamava Sanudo, perciò, i nobili poveri che nel Maggior Consiglio
vendevano il loro voto, perché non avevano altro da vendere se
non se stessi. Era dunque logico che gli Svizzeri, con la loro reputazione
di essere invincibili, persero per gli Italiani, nel 1515 a Marignano
(Melegnano), anche l'unica dote che avevano. Anzi già la sera della
sconfitta, durante il sopralluogo sul campo di battaglia, era svanito
il loro fascino: "Vide assa' corpi di sguizari morti in terra come
porzi, mal vestiti e poco imo (o magari) niente armadi (armati)",
scrive un veneziano dopo un giro tra i cadaveri ammassati; e nei loro
borsellini non si trovava neanche denaro in quantità degne di nota:
"Dice che di 22 borse tajate (tagliate) di questi sguizari fo trovato
dentro varie monete non di valuta, marzeli 19, sichè sono poveri
e chanaja (canaglia)".
Per solito, le tasche dei mercenari svizzeri non erano così vuote
(ma forse, prima del veneziano, per il campo di battaglia erano già
passati altri che non si erano limitati a contare i soldi). Per la spedizione
di Pavia del 1512 è possibile stabilire l'esatto ammontare dello
stipendio ricevuto, perché la relativa contabilità fu contestata,
e quindi documentata in modo particolarmente preciso.
Lo stipendio mensile di un semplice fante era di 9 libr. Bernesi oppure
4 ½ fiorini renani. La distribuzione di un fiorino a Coira e di
un ducato a Verona (di più non era possibile, perché non
bastavano i 20.000 ducati che il cardinale legato, nella previsione di
soli 6.000 uomini, aveva portato con sé) era un acconto sulla prima
paga mensile. Ma complessivamente lo stipendio fu pagato correttamente:
tre mensilità dalla mano del cardinale legati (con fondi pontifici
e con un tributo imposto al ducato di Milano dopo la conquista) e l'ultima
al momento del congedo avvenuto ad Alessandria a fine luglio. In aggiunta
fu versata una mensilità straordinaria, con la quale Pavia, dopo
l'occupazione, evitò il saccheggio. Quattro (3+1) stipendi semplici
dunque, cioè 36 libr. Bernesi o 18 fiorini renani; di conseguenza,
per i mercenari a doppio stipendio (fucilieri, capisquadra, stato maggiore),
il doppio; e inoltre altre gratificazioni, per lo più destinate
ai mercenari a doppio stipendio, il cosiddetto soprassoldo, che l capitano
poteva distribuire a 12 su 100 uomini arruolati.
Disporre di una tale truppa anche per soli tre mesi, costava caro al committente
italiano: per il contingente bernese inizialmente di 1446 uomini (nel
primo e secondo mese), poi 1069 tra coscritti e volontari, si arrivava
a 3961 (2x1446+1x1069) stipendi semplici, con 11 doppi stipendi a 462
soprassoldi, il tutto a nove lib. Bernesi rispettivamente; di soli stipendi,
dunque, più di 40.000 libr. o 20.000 fiorini renani, cioè
circa 15.000 ducati veneziani (e con ciò era coperto il colo contingente
bernese del grande esercito!). Per nostra fortuna, il capitano Burkhard
von Erlach aveva presentato alla commissione d'inchiesta un carteggio
meticoloso e con esito soddisfacente; aveva addirittura accuratamente
elencato i regali ricevuti lungo la strada: la cena della prima giornata
gratis perché offerta dall'abate di Thorberg; per la prima colazione
a Burgdorf il vino gratis… ecc.
Ma rivolgiamoci ancora una volta al singolo, alle sue condizioni di vita:
36 libr. bernesi o 18 fiorini renani di stipendio rappresentavano per
un semplice fante una bella somma in contanti che a casa forse non aveva
mai avuto in mano (ovviamente ciò non vuol dire che ai contadini
dell'Oberland fosse preclusa la possibilità di accumulare ricchezze,
come Valerius Anshelm dimostra citando l'esempio del "ricco Jenneli"
che, da povero con due mucche, era diventato il contadino più ricco
tra Kander e Simme), chi portava un fucile, come per lo meno 12 dei nostri
Oberländer, o chi era caposquadra come Hans Gering, Peter Züricher,
Peter von Moss e altri, riceveva già il doppio stipendio oppure
(con il soprassoldo) ancora di più. Chi invece riusciva a impossessarsi
di qualche bottino o a fare addirittura un buon prigioniero, per la libertà
del quale poteva essere chiesto un riscatto, racimolava ancor di più:
nel 1500, Hans Wingarter di Berna aveva ricevuto 500 ducati per Antonius
de Ferrariis di Milano e 350 ducati per Nicolaus de Scaldamariis di Mantova,
e non furono gli unici prigionieri che lui e altri avevano fatto; vi era,
per così dire, un consorzio per i riscatti, i cui membri poi, in
Svizzera, si cedevano reciprocamente i diritti. E ora, nel 1512, durante
il lungo assedio di Lugano e dopo tre settimane senza stipendio, a un
"povero soldato orfano", per disperazione, venne la buona idea
di catturare e spremere un ricco malvagio; subito però ci misero
sopra le maini i capitani, come egli confessa candidamente a Lor Signori
di Berna in un dettagliato rapporto. A Felix Bader di Thun, al quale mancavano
ancora 100 delle complessive 140 libr. per pagare la sua bottega di barbiere,
o a Heini Sager, che non aveva ancora potuto pagare la sua segheria sull'Aare,
sarebbe servito un buon bottino - e probabilmente proprio per questo motivo
si erano arruolati nel 1495, prendendo, da Thun, la strada per Lamparten
(Lombardia) attraverso l'omonima porta. Per dare una certa idea del valore,
o del potere d'acquisto, di un tale stipendio occorre dire che, per cento
libr. un cittadino di Thun poteva all'epoca assicurarsi, per la vecchiaia,
un posto all'ospizio.
Certo, non sempre sarà stato tanto ciò che rimaneva dello
stipendio e del bottino da portare a casa. Gli oggetti requisiti non potevano
essere portati a piacimento oltre le Alpi: era l'ora degli incettatori
che accompagnavano ogni esercito e contribuivano, a modo loro, a tener
basso il ricavato e a non far uscire gli oggetti dal paese. Spesso il
bottino ufficialmente distribuito non era molto cospiquo, perciò
ci si doveva muovere da soli, come quegli Svizzeri che durante la spedizione
di Pavia buttarono giù dalla sua preziosa bara, allestita nel duomo
di Milano, il fresco cadavere dello - scomunicato - vincitore di Ravenna,
il duca di Nemours, tagliandola in pezzi maneggevoli da portare via comodamente;
a sua volta il capo del contingente friburghese, Peter Falk, mandava a
sua moglie - come aveva annunciato in una lettera al suo "tesoro
Ennelyn" - "due balle con diversa roba" dal campo di battaglia,
e tra l'altro "otto o nove begli stendardi che dovresti spiegare
bel bello e attaccare a uno o due pali". Il bottino era, per l'appunto,
una questione di caso e di fortuna, nelle guerre milanesi come già
nelle guerre della Borgogna: allora alcuni, anch'essi provenienti dall'Oberland
bernese, erano riusciti a raccattare così tanto da poter vendere
gli oggetti, requisiti in Borgogna, perfino a Francoforte; gli altri invece
requisivano ben poco, solo "un formaggio, che hanno mangiato".
Del resto per molti il fascino del paese sconosciuto e dei prodotti mai
visti era fin troppo allettante, per cui la smania di acquistare generava,
alla fine, una forma di riciclaggio: i tributi estorti e i ricavi tratti
dalla vendita degli oggetti requisiti rifluivano nella produzione di articoli
di lusso, portavano per così dire - all'interno di una stessa regione
però - a una ridistribuzione tra i diversi settori dell'economia.
La seta milanese era irresistibile: sappiamo di bernesi che si recavano
(anche senza licenza) a cavallo fino a Milano per comprare seta: "Quando
a Novara pioveva forte…, egli si diresse con altri capitani verso
Milano senza avere il passaporto, e comprò tanta seta". Così
arrivavano, al di là delle Alpi, colori mai visti (il giallo!),
a Berna la moda femminile si arricchiva di strani accessori; un capitano
bernese si indebitava fino al collo solo per acquistare giarrettiere in
gran quantità e altre stravaganze della moda, da far vedere poi
nelle strade della città. Ma anche tra gli stessi contadini, nelle
loro fattorie, si diffondeva questa brama per il lusso. Intanto il cronista
bernese stentava a capire quello che per un Italiano dell'epoca sarebbe
stato ovvio già da tempo, cioè che, spesso, nella formazione
del prezzo degli oggetti di lusso, la lavorazione incide più dello
stesso materiale, come "le scarpe che appena appena si reggono sulle
dita e ciononostante costano il doppio di un solido calzare!".
Se invece lo stipendio serviva per mantenersi, senza poter contare su
circostanze particolari dovute alle entrate provenienti dal saccheggio
o dagli abbondanti rifornimenti veneziani, buona parte di esso già
sfumava. La spedizione del 1512 è istruttiva per comprendere questo
nesso. Gli uomini della truppa, che poche settimane dopo Pavia iniziarono
l'assedio del castello di Locarno - tra essi 50 bernesi con inizialmente
otto uomini dell'Oberland - ben presto protestarono per lo stipendio troppo
basso. "Ci sono parecchi soldati che ora non hanno più soldi",
dovette apprendere il consiglio di Berna da una lettera scritta a metà
agosto; date le alte spese per il vitto, essi non erano disposti a fare
i soldati per otto libre. E dieci giorni dopo ancora: "Così
i vostri soldati non sono disposti a prestare servizio per tale stipendio,
perché quattro fiorini non bastano per mantenersi, costando tutto
caro in strada e in campo"; così essi chiedevano non quattro,
ma cinque fiorini renani, cioè dieci libr. bernesi. E poco dopo
compare la stessa lamentela, documentata da un biglietto con alcuni nomi:
"Questi sono ammalati…" E poi: "Questi non sono ammalati
e non vogliono prestare servizio per tale stipendio: quello di Unterseen…,
quello di Spiez", quindi anche due dell'Oberland. Tra gli assedianti
vi erano uomini che avevano appena prestato servizio nella spedizione
di Pavia per 4 ½ fiorini renani (o più di 3 ducati veneziani)
al mese e con ottime vettovaglie provenienti dal paese, perciò
non erano disposti a partecipare a un lungo assedio senza la prospettiva
di un notevole bottino; preferivano piuttosto tornare a casa e aspettare
occasioni migliori.
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