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Kurz
Rudol Hans
Marignano
13/14 settembre 1515
Estratto da "Le battaglie svizzere"
Ediz. Francke, Berna
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Nell'intento
di sfruttare il successo d'armi di Novara e di costringere la Francia
a una pace vantaggiosa, l'esercito svizzero penetrò in Burgundia
e si pose davanti a Digione. Il 13 settembre venne conclusa in questa
città la pace con il generale Ludovico XII, La Trémoille,
nella quale la Francia dovette rinunciare ai suoi possedimenti italiani
e promettere ai confederati un notevole risarcimento di guerra. A pace
conclusa gli Svizzeri ripresero la strada del ritorno a casa, dove presto
dovettero venire a conoscenza che il re francese non era disposto a tenere
fede agli accordi stipulati, poiche La Trémoille non aveva il potere
di trattare in suo nome.
La morte di Luigi XII - egli morì il 1° gennaio 1515 - evitò
ulteriori discordie. Ma anche il successore di Luigi al trono di Francia,
Francesco I, si attribuì già dall'inizio il titolo di duca
di Milano e diede con ciò chiaramente ad intendere che egli non
era disposto a rinunciare al ducato di Milano, ma al contrario aveva l'intenzione
di riconquistarlo. A questo scopo subito dopo la sua salita al trono cercò
di trovare un accordo con i confederati. Questi però rifiutarono
piuttosto categoricamente le sue proposte e fecero sapere al re che avrebbero
trattato con lui soltanto sulla base della pace di Digione. Anche quando
Francesco I tentò di arrivare al suo scopo con offerte dorate mediante
i suoi diplomatici, i confederati rimasero fermamente decisi e non si
lasciarono distogliere dalla loro alleanza con il duca Massimiliano Sforza.
Le trattative vennero perciò interrotte a fine aprile 1515 senza
risultato.
Ora il re francese cominciò ad armare un esercito con tutte le
energie, col quale voleva penetrare in Italia e riconquistare tutto ciò
che riteneva essere di suo diritto. Si unì con patti all'Inghilterra
e a Venezia e si assicurò l'amicizia dell'arciduca Carlo, che governava
i Paesi Bassi e che gli permise l'acquisto di mercenari. Alle reclute
francesi si aggiunsero anche frotte di lanzichenecchi tedeschi, malgrado
che il loro imperatore stesse dalla parte opposta. Quando a fine aprile
1515 anche la città di Genova minacciò di passare alla Francia,
l'assemblea elvetica decise una spedizione di 4000 uomini - a cui si aggiunse
anche un numero pari di volontari - che avrebbero dovuto prevenire la
Francia nella conquista di Genova ed evitare che la Francia potesse penetrare
in Lombardia dalla costa ligure. Questo contingente, a cui si aggiunsero
anche 1500 cavalieri con alcuni cannoni, guidati da Prospero Colonna,
venne però fermato ad Alessandria dal cardinale Schinner su richiesta
del papa, perchè si prevedeva l'arrivo del grosso dell'esercito
francese; a quest'ultimo si voleva andare incontro con piene forze e non
perdersi in una lontana operazione contro Genova.
Contemporaneamente venne richiesto all'assemblea elvetica di inviare rinforzi
in Lombardia per poter andare incontro con maggiori forze all'attacco
francese. Il 12 giugno venne decisa una seconda chiamata alle armi per
14000 uomini; questo esercito marciò in due colonne sul Grande
San Bernardo e attraversò il Gottardo entrò a Vercelli nei
primi giorni di luglio.
Il piano degli Svizzeri, approvato dall'assemblea, consisteva nell'occupare
i passi alpini piemontesi sui quali ci si aspettava passasse l'esercito
di Francesco I, onde impedire che l'esercito francese uscendo dalle valli
alpine potesse procedere nella pianura lombarda; contemporaneamente dveva
essere messo al sicuro anche l'entroterra con guarnigioni a Milano, Cremona
e Novara. Questo piano era indubbiamente giusto: il nemico doveva essere
costretto a combattere là dove non poteva far valere la supremazia
numerica e la sua forte artiglieria e cavalleria e dove i confederati
si ritenevano più a casa loro, cioè in montagna e sulle
strade dei passi. Bisognava tuttavia tener conto dello svantaggio nel
dover suddividere le proprie forze, rinubciando al principio della concentrazione.
Malgrado i suoi chiari vantaggi, l'ordine dell'assemblea venne eseguito
negligntemente dalla truppa. Si verificarono mancanze di ogni genere e
anche i pagamenti del soldo da parte del duca di Milano vennero presto
a mancare. Inoltre a Milano scoppiò una rivolta contro il duca
inviso al popolo, che si ritirò in luoghi più interni. Fu
necessaria tutta l'energia del capo elvetico, in particolare del capitano
bernese Albrecht vom Stein, per irportare la milizia scoraggiata alle
uscite dei passi fra Susa (a ovest di Torino) e Saluzzo. Le stesse difficoltà
si ripeterono dopo l'arrivo del secondo contingente. I cantoni erano discordi,
l'esercito demoralizzato e incollerito per dover, in mancanza del soldo,
essere costretto al saccheggio per procacciarsi quanto necessitava al
proprio sostentamento. Gli uomini del cantone del Gottardo vollero rimanere
a Milano, dove oltre che poter saccheggiare potevano tener meglio d'occhio
il loro possesso ticinese; il loro unico interesse era di difendere quest'ultimo
tempestivamente e non avevavno alcuna comprensione per la strategia lungimirante
dei cantoni delle altre città. Albrecht vom Stein, il propugnatore
convinto di una guerra estesa, divenne ben presto vittima della della
sua convinzione; il 24 luglio a Moncalieri si ebbe un grave ammutinamento
contro di lui da parte dei cantoni di Schwyz e Glarn, che lo accusarono
di tradimento della causa confederale; soltanto l'intervento di alcuni
condottieri e del cardinale Schinner evitò il ptopagarsi del conflitto.
Questo tuttavia continuò silenziosamente; era ormai distrutta l'unità
fra i confederali. Stein ormai partecipava soltanto controvoglia alla
causa.
Le disposizioni prese vennero nuovamente modificate in data 4 agosto a
Moncalieri in un consiglio di guerra. Ci si mise d'accordo di sorvegliare
con minori forze i passi, onde mantenere il grosso dell'esercito al di
qua dei monti, onde poterlo radunare possibilmente in fretta per un colpo
decisivo da vibrare a seconda della direzione di marcia del nemico. I
circa 23000 uomini, comprese le forze milanesi, si disposero come segue:
2500 uomini presso Susa
6000 uomini presso Pinerolo
2000 fino 3000 uomini presso Vigone
1000 "sudditi liberi" presso Bricherasio
2000 "sudditi liberi" presso Saluzzo
1500 cavalieri milanesi presso Avigliano e Rivoli.
Contemporaneamente venne chiesto all'assemblea di mandare in Italia un
terzo forte gruppo di rinforzo.
Queste disposizioni furono però di breve durata. Avendo l'impressione
dell'avvicinarsi di un forte esercito francese il 7 agosto si incontrarono
a Chieri i comandanti dei sette cantoni centrali e orientali per uno speciale
consiglio di guerra, in cui si chiese lo sgombero completo del Piemonte
e il ritiro a Milano, con la strana motivazione che le strette valate
delle Alpi Occidentali potevano essere accerchiate facilmente dalla supremazia
francese.
In un consiglio di guerra che venne convocato dal cantone di Berna a Rivoli
il 9 agosto, le altre cttà dichiararono che esse sarebbero ritornate
subito in patria, se la decisione presa a Chieri fosse stata messa in
atto.
Dopo forti discordie si venne alla fine ad un compromesso, in cui si diede
ordine ai contingenti di Berna, Friburgo, Solothurn, Basilea, Sciaffusa,
Wallis, Graubuenden, Thurgau e di Rottweil di portarsi a Susa, mentre
gli altri contingenti nonché i cavalieri milanesi di andare a Saluzzo.
In effetti le truppe raggiunsero i luoghi a loro destinati; ma la discordia
e l'indecisione manifestatesi fra i confederali non facevano prevedere
nulla di buono nel proseguimento della campagna militare.
Nel frattempo Francesco I aveva radunato presso Lione un imponente esercito
di circa 60000 uomini, con il quale all'inizio di agosto si spinse nel
distretto di Grenoble e da là attraverso la valle del Durance verso
Embrun-Briaçon; qui si acquartierò provvisoriamente. L'esercito
francese comprendeva una cavalleria di 13000 fino 15000 uomini, una fanteria
di 25000 fino 26000 uomini, una forza internazionale consistente per la
maggior parte da lanzichenecchi tedeschi, 6000 uomini "bande nere"
di mercenari, inoltre circa 10000 Navarresi, Baschi e Guasconi, per lo
più arcieri e archibugeri, nonché sudditi liberi francesi.
L'artiglieria comprendeva 300 cannoni leggeri caricati su animali da soma
e 74 cannoni pesanti di svariato calibro. Inoltre vi erano circa 3000
genieri (costruttori di strade e fortificazioni) nonché un imponente
carriaggio con oltre 5000 cavalli.
Essendo a conoscenza della disposizione dei contingenti confederali, i
Francesi preferirono non valicare le Alpi Occidentali attraverso i passi
relativamente comodi del Monte Cenisio e Monte Genèvre, ma passarono
su consiglio di Trivulzio, con le forze principali il Col d'Argentière
(Colle Maddalena) che si trova più a sud, selvaggio e poco praticabile.
In previsione delle grandi difficoltà da superare per transitare
su questo passo, mai fino allora valicato da così grandi formazioni,
i confederali non avevano calcolato che i Framcesi potessero usufruire
di questo passaggio e lo avevano lasciato incustodito.
Questa loro convinzione fu ancor più rafforzata dal comportamento
dei Francesi che vistosamente si mostrarono sul Monte Cenisio e sul Monte
Genèvre con svariati mezzi e diedero ad intendere la loro intenzione
di usare queste strade. L'inganno riuscì; il corpo principale dell'esercito
francese potè spingersi non ostacolato dal'avversario fra l'8 e
il 12 agosto dentro la valle di Stura di Demonte fino a Cuneo, dove i
Francesi con il grosso dell'esercito poterono sorprendere inaspettati
gli Svizzeri ai fianchi e alle spalle.
Appena da parte confederale si conobbero le mosse del nemico, le città
vollero riunire le forze elvetiche a Saluzzo ad attaccare i Francesi,
ancora prima che si fossero completamente riuniti. I Bernesi e Friburghesi
che si trovavano a Susa ed erano fra i più lontani, si misero subito
in marcia, ma gli Svizzeri dell'interno non seguirono questa giusta decisione.
Essi dichiararono che ormai tutto era perduto e pretendevano la restituzione
dei sudditi liberi che stavano a Saluzzo. Perciò i Bernesi dovettero
ritirarsi e venne così mancata l'occasione unica di battere il
nemico prima che si fosse riunito. I litigi, la discordia, la sopravvalutazione
delle proprie forze di combattimento come anche l'abile lavoro di sabotaggio
da parte dei Francesi avevano rovinato l'ultima possibilità di
riuscita e così ci si lasciò sfuggire la momentanea debolezza
del nemico.
Un attacco eseguito il 14 agosto dai cavalieri francesi contro la cavalleria
milanese a Villafranca costò la perdita della maggio parte dei
propri cavalieri e aumentò ancor più la demoralizzazione
dell'esercito confederale. La loro discordia interna e le difficoltà
esterne indussero i confederali ad un ulteriore ritirata verso Rivoli
(a ovest di Torino); in questo modo furono lasciate senza lotta ai Francesi
anche le uscite dei grandi passi, che servivano loro per il passaggio
dell'artiglieria pesante.
Il ripiegamento dell'esercito elvetico già iniziato non si poteva
più fermare. Vergognosi della ingloriosa ritirata, che pareva essere
quasi una fuga e che si rifletteva in modo catastrofico sul morale dell'esercito,
abbandonati dagli alleati, senza soldo né viveri, soli in un paese
che di giorno in giorno diventava sempre più ostile, i capitani
divisi e diffidenti fra loro stessi, non più sicuri delle loro
truppe, dalle quali molta gente scappava, essendo indebolito il loro coraggio,
per tutto ciò diedero per persa la causa. Non si poteva più
contare sui loro alleati nella lega antifrancese. Né il papa Leone
X né l'imperatore Massimiliano né tantomeno il re spagnolo
Ferdinando mantennero la loro parola lasciando i confederali elvetici
al loro destino mentre cominciarono a trattare in modo sempre più
evidente con l'avversario.
Da Rivoli l'esercito confederale si ritirò il 18 agosto in tutta
fretta verso Ivrea; due giorni più tardi si trovava già
a Vercelli. A causa delle evidenti trattative di alcuni cantoni con i
Francesi, la discordia fra gli Elvetici raggiunse il culmine; l'esercito
da questo momento si dissolse. I cantoni di Ur, Lucerna, Galrus e Zug
andarono a Sesto Calende, la sponda a sud del Lago Maggiore, mentre gli
altri cantoni dapprima marciarono verso Novara dove speravano di ricevere
i pagamenti del soldo promessi da lungo tempo e di incontrarsi con le
truppe ausiliarie. Ma quando - una volta di più - le loro attese
rimasero insoddisfatte, decisero pieni di rancore, di riprendere la strada
del ritorno in patria.
Immediatamente le città occidentali fecero dietro front verso Arona,
dove erano vicini all'uscita del passo del Sempione, mentre Zurigo, Basilea,
Sciafusa e i cantoni più orientali si diressero verso Gallarate,
che sta più vicino al Gottardo. La partenza da Novara avvenne così
di precipizio che l'artiglieria in parte trasportata a mano attraverso
il Piemonte rimase a Novara e cadde pochi giorni più tardi in mano
al nemico!
Il 20 agosto l'assemblea decise una terza spedizione di 15000 uomini che
entrarono nell'Italia settentrionale da diverse parti all'inizio di settembre.
Questi rinforzi arrivati dalla patria esercitarono un certo miglioramento
nell'umore degli eserciti confederali, che si lasciarono convincere a
ritornare verso il nemico. Nei primi giorni di settembre l'esercito confederale
era pronto in tre schieramenti: le città occidentali con il terzo
rinforzo a Domodossola, le precedenti spedizioni senza le città
occidentali a Varese e i rimanenti a Monza.
Nel frattempo Francesco I con il suo esercito era entrato nel ducato di
Milano. Egli occupò il 28 agosto Novara, abbandonata, e tre giorni
dopo stava presso Milano, la cui popolazione però lo ricevette
ostile, cosicchè Francesco I preferì aspettare fuori dalle
porte l'arrivo degli alleati veneziani, il cui esercito era partito da
Verona e si trovava in marcia. Contemporaneamente voleva da qui impedire
l'incontro degli alleati con le truppe spagnole e papali.
Già il 28 agosto ebbero inizio trattative di pace fra i negoziatori
del re francese e la maggior parte dei confederali. In queste prime trattative
condotte a Vercelli (a ovest di Novara) i rappresentanti di Francesco
I si mostrarono pronti a straordinarie concessioni, per appianare i contrasti
di guerra con i confederali, che riempivano di timori il re. I plenipotenziari
francesi seppero sfruttare la lite e il contrasto di interessi fra i confederali
stessi e così si arrivò l'8 settembre a Gallarate ad una
pace preliminare fra gli Svizzeri senza Uri, Schwyz e Glarus e i negoziatori
francesi. Alla Francia venne promesso il dominio sul ducato di Milano,
sulla contea di Asti e Genova, mentre si doveva risarcire il duca di Milano
con il ducato francese di Nemours nonché con un appannaggio. Anche
i territori confederali meridionali antistanti l'Eschental, Domodossola,
Locarno e Lugano dovevano essere ceduti alla Francia, che si impegnava
tuttavia non soltanto al pagamento del risarcimento di 400.000 corone
pattuite sin dalla pace di Digione, ma anche a trovare un accordo per
il versamento di 300.000 corone per i territori a sud del Ticino nonché
un risarcimento di 300.000 corone per le spese sostenute nell'invio delle
tre spedizioni confederali. Contemporaneamente il contratto di Gallarate
conteneva un abbozzo d'alleanza militare fra i confederali e la corona
francese.
Con questo contratto i rappresentanti confederali avrebbero venduto contro
argento sia il loro impegno di difendere il duca di Milano, per il quale
già molto sangue era stato versato in Italia, nonché i loro
stessi possedimenti sudticinesi. Già da questo si rivela eidente
la loro incapacità di condurre, fuori dai propri confini, una vera
politica di forza.
Contro il progetto di trattato di Gallarate si levarono presto forti voci
nel campo elvetico. I cantoni del Gottardo non si trovarono d'accordo
per la perdita dei territori meridionali ticinesi e opposero resistenza
a questo disonore. Anche il duca di Milano si opose fermamente contro
l'accordo. Il cardinale Schinner usò tutta la sua eloquenza per
trattenere i confederali dall'accettare il contratto. Gli riuscì
di convincere la maggior parte dei comandanti confederali a rimettersi
in marcia di ritorno verso Milano; il 10 settembre essi arrivarono in
città. Invece i Bernesi, i Friburghesi e i cittadini di Solothurn,
Wall e Biel, complessivamente 10.000 uomini tornarono in patria dopo i
primi accordi della pace di Gallarate.
Il 12 settembre lasciarono Domodossola e da qui si misero in marcia verso
i passi. Il rancore contro i confederali che avevano sempre rinunciato
alla lotta, i dubbi sul verificarsi di un'azione collettiva e il rammarico
per la mancanza di un qualsiasi appoggio da parte degli alleati, fecero
decidere a questo infausto passo le genti dei cantoni più occidentali.
Fra le file si erano già verificati casi di scioglimento, che si
erano espressi in un numero sempre maggiore di fuggiaschi che abbandonavano
il campo - ma soprattutto per questi confederali dei cantoni occidentali
erano le idee politiche diverse che li spingevano ad abbandonare al più
presto il campo d'azione, sul quale erano giunti già poco convinti.
Unicamente alcuni comandanti bernesi e circa 3000 sudditi liberi rimasero
nell'esercito.
A Milano il cardinale Schinner, il cui odio era di gran lunga maggiore
di quello dello stesso papa, esercitò nuovamente tutta la sua eloquenza
per distogliere i confederali dalla pace di Gallarate. La sua posizione
divenne tuttavia sempre più difficile, man mano che si dimostrava
essere su basi labili la sua promessa di un prossimo aiuto degli alleati.
Infatti ora come prima non si vedeva arrivare alcun aiuto. Gli spagnoli
si erano effettivamente avvicinati, ma si erano poi nuovamente ritirati
verso Piacenza, essendo venuti a conoscenza delle trattative di pace dei
confederali con la Francia.
L'imperatore aveva da tempo tradito i suoi alleati confederali e anche
dal papa si sapeva, che egli era in trattativecon Francesco I; soltanto
un gruppo di cavalieri papali aveva seguito il cardinale Schinner nel
campo elvetico. Così tutto il peso della battaglia contro la supremazia
numerica francese ricadeva sugli Elvetici che erano rimasti indietro a
Milano. L'umore dell'esercito confederale elvetico era oltremodo teso
e i pareri sul comportamento futuro divergevano molto. Il 12 e anche il
13 settembre si ebbero vivaci discussioni, che tuttavia non portarono
ad alcun accordo. Già avevano deciso anche i Zurighesi e le genti
di Zug di ritornare a casa e si prepararono per intraprendere la marcia
di ritorno il 13 settembre.
Siccome il cardinale Schinner non riusciva ad arrivare allo scopo con
le arringhe, giocò d'artificio per indurre i confederali ad entrare
in battaglia contro i Francesi prima che fossero ancor più indeboliti
da ulteriori defezioni e nello stesso tempo distruggere l'accordo di Gallarate.
L'esercito francese era arrivato a Marignano il 10 settembre e due giorni
più tardi si era accampato asud di Milano, fra S.Giuliano/Zivido
e Marignano in un campo fortificato, dal quale partivano giornalmente
gruppi di cavalieri verso Milano in ricognizione. Contro una di queste
pattuglie di cavalieri che sciamavano in giro, si indirizzò l'attacco
di Schinner: egli si mise d'accordo con il comandante della guardia del
corpo ducale, un certo Arnoldo di Winkelried, il quale avrebbe dovuto
invischiarsi in una scaramuccia con i cavalieri francesi per poi subito
chiamare gli altri confederali a suo soccorso. Il gioco prestabilito riuscì
il mezzogiorno del 13 settembre, prima che le genti di Zurigo e Zug avessero
potuto mettersi in marcia per il rimpatrio: secondo gli accordi la guardia
del corpo ducale e un drappello di cavalieri papali sottomessi al cardinale
si invischiarono in una scaramuccia con un drappello francese; subito
vennero chiamati in aiuto i confederali e questi accorsero davanti alle
porte di Milano con al comando Schiner. Qui trovarono i fratelli "minacciati"
accampati pacificamente all'ombra delle piante, mentre i cavalieri nemici
si erano da tempo ritirati. Malgrado che l'inganno fosse a tutti chiaro,
non vi fu più modo di indietreggiare. Ormai si era risvegliato
il gusto per la lotta fra gli Elvetici, l'esercito era riunito e così
alla maggioranza dei confederali sarebbe parso disonorevole di ritornare
nuovamente indietro, dopo che erano avanzati. In questo modo si arrivò
ad una battaglia nel tardo pomeriggio del 13 settembre 1515, che da ambedue
gli eserciti in fondo non era stata voluta.
Il territorio, sul quale si scontrarono le truppe, era una pianura quasi
piatta, con prati, orti e vigneti, attraversata da corsi d'acqua naturali
e artificiali, i cui canali principali erano assai profondi. L astrada
maestra fiancheggiata da canali, che porta da Milano a Lodi attraverso
Marignano, costituisce una specie di diga in mezzo al territorio canalizzato.
Su questa strada, a circa 10 km a sud-est di Milano, giace la borgata
di San Giuliano; qui si radunarono i confederali elvetici per la battaglia.
Circa un chilometro più lontano si trova il paesino di Zivido,
che doveva diventare il vero epicentro della battaglia e altri due chilometri
più lontano si trova il gruppo di case di San Brigida, che dista
dall'altra parte circa un chilometro e mezzo da Marignano.
Volgendo la schiena a questo posto, l'esercito francese si era trincerato
fortemente, utilizzando abilmente questi corsi d'acqua come impedimento
ai tentativi d'avvicinamento. Su un leggero rialzo del terreno l'artiglieria
francese trovò un luogo d'appostamento difficilmente raggiungibile
e un campo di tiro favoravole. La battaglia doveva aver luogo fra San
Giuliano e San Brigida. Questo terreno avvantaggiava per la scarsa visibilità
e per la forte canalizzazione i Francesi in attesa; tuttavia i numerosi
canali costituivano anche notevoli impedimenti per un'azione compatta
della cavalleria.
L'esercito francese composto da circa 1200 cavalieri e 33.000 uomini di
fanteria si allarmò per l'apparente combattimento davanti alle
porte di Milano e si dispose subito per la battaglia in tre schieramenti
uno dietro all'altro:
"Una fortissima avanguardia di 25.000 al comando del Connestabile
di Bourbon e Trivulzio che si dispose subito dietro alle trincee più
avanzate francesi presso Zivido. Ad essa apparteneva una parte della cavalleria,
il grosso degli arcieri francesi con 8.000 uomini, 4.000 uomini dei "figli
perduti" francesci nonché 9.000 lanzichenecchi
"Un corpo centrale di circa 12.000 uomini disposti più indietro
al comando diretto di Francesco I; questo contingente apparteneva il grosso
della cavalleria pesante francese, i 6.000 uomini delle "bande nere"
costituito da mercenari e un certo numero di lanzichenecchi.
"Una retroguardia consistente in circa 10.000 uomini nelle immediate
vicinanze di San Brigida; questa comprendeva il resto dell'esercito.
"L'artiglieria stava con i suoi 74 cannoni pesanti e oltre 300 cannoni
leggeri nonché un numero imponente di archibugi in postazione compatta
di fronte e lateralmente all'avanguardia.
"L'esercito veneziano alleato, che stava in forze presso Lodi, venne
invitato con marcia forzata ad arrivare durante la notte.
I confederali raggiunsero verso le cinque del pomeriggio la località
di San Giuliano. In vista dell'approssimarsi dell'oscurità, della
mancanza di vettovagliamento e della insufficiente preparazione per la
pesante battaglia, i più criteriati fra i comandanti non volevano
attaccare lo stesso giorno ma aspettare la mattina seguente. Lo stesso
cardinale Schinner si disse contrario ad un attacco immediato. Ma questi
consigli vennero zittiti dalla massa infervorata alla lotta, che non si
poteva più trattenere alla vista del nemico. Si temeva anche che
durante la notte una parte dei confederali si sarebbe ritirata e si voleva
dare il via alla battaglia senza indugio. Così ancora una volta
la incontrollata smania di combattere dei soldati abbe il sopravvento;
si entrò tosto in battaglia contrariamente al parere al parere
dei capitani. St. Jakob sul Birs e Marignano sono gli esempi inauditi
della sconsideratezza dei bellicosi Svizzeri che smaniosi di sangue si
buttavano alla battaglia e con essa alla morte.
Senza grande ordine l'esercito elvetico di poco più di 20.000 uomini
era uscito a precipizio da Milano e si disponeva in tutta fretta per la
battaglia. Si formò un'avanguardia e tre principali schieramenti
di combattimento che dovevano procedere non uno dietro l'altro, ma affiancati
su di una linea unica:
"L'avanguardia costituita da sudditi liberi sotto il comando di Ammann
Werner Steiner di Zug.
"Il grosso dell'esercito formato da Svizzeri dell'interno sotto i
loro capitani.
"L'ala destra con Svizzeri Occidentali e alleati.
"L'ala sinistra con gli uomini di Lucerna e Basilea.
"L'artiglieria stava sull'ala destra del grosso dell'esercito; era
comandata dal capo artigliere Ponthely di Friburgo ed era coperto da una
moltitudine di sudditi liberi. Dopo che si erano abbandonati con leggerezza
gli altri pezzi d'artiglieria a Novara, vi erano a disposizione soltanto
sei cannoni su ruote rimasti dala loro dotazione di Milano.
"La cavalleria ducale e papale che stava dalla parte egli Svizzeri
contava soltanto 200 fino a 300 uomini e non ebbe assolutamente peso nella
battaglia.
Nel tardo pomeriggio del 13 settembre - il sole stava già basso
sull'orizzonte - gli Svizzeri aprirono la battaglia con una salve d'artiglieria.
Contemporaneamente dalla sinistra sciamò l'avanguardia dei "figli
perduti" contro il nemico in file compatte, subito seguiti dagli
altri schieramenti elvetici. L'attacco trovò preparato l'esercito
francese. Venne accolto con una fitta grandinata di spari della sua vicina
artiglieria, i cannoni sommersero di colpi gli attaccanti. Ma questi non
si curarono del fuoco, malgrado che fra le loro file infieriva tremendamente
e causava pesanti perdite. Eretti, incuranti del fuoco del'artiglieria
nemica, come già fecero nella guerra sveva, i quattro schieramenti
elvetici caricarono il nemico, per sfuggire al più presto al tiro
mortale, avanti l'avanguardia, riconoscibile dai bianchi ondeggianti pennacchi
dei soldati Dietro questa, scaglionati da ambedue i lati, gli schieramenti
posteriori. Dopo il breve ma volento scontro, l'avanguardia francese,
che aveva abbandonato la trincea ed era corsa incontro agli Svizzeri,
venne respinta e sbaragliata. Anche un attacco della cavalleria contro
i fianchi degli Svizzeri venne respinto con grave perdita di lancieri.
Irresistibilmente avanzavano gli Svizzeri, attraversavano i canali d'acqua
di difesa e scavalcavano le fortificazioni francesi. In breve vennero
presi numerosi cannoni del nemico e vennero orientati contro i Francesi;
soltanto a fatica riuscì agli artiglieri di salvare altri cannoni
trascinandoli in una postazione più arretrata.
Nel frattempo il sole era calato; i suoi ultimi raggi coloravano di rosso
sangue le nuvole di passaggio. Ma la battaglia infuriava ancora. Dopo
che l'avanguardia francese fu battuta e sbaragliata, Francesco I condusse
personalmente nella battaglia il grosso dell'esercito, a cui si unirono
parti disperse dell'avanguardia. Nuovamente i cannoni che si erano salvati
sputarono fuoco e distruzione sugli Svizzeri che procedevano in file compatte.
Una lotta esacerbata e selvaggia si dipanò sul campo francese.
Da parte francese si fecero avanti soprattutto le "bande nere"
di mercenari e la cavalleria pesante che per ben 30 volte si scagliarono
in avanti ma che sempre vennero respinti dal fronte di ferro degli scatenati
confederali. Da tempo era caduta l'oscurità e soltanto una sottile
falce di luna rischiarava fra le nubi di passaggio lo spettrale lavoro
omicida.
Sempre più grandi crebbero le perdite da ambedue le parti; straordinariamente
grande era anche la perdita di capitani in questa lotta impietosa; la
morte mietè vitime in pari numero sia fra i nobili francesi che
fra i capitani svizzeri. Sempre di più le truppe in lotta si dissolvevano
nell'oscurità.
La battaglia aveva perso da tempo i suoi confini e la panoramica si era
sciolta in azioni singole e lotte furiose uomo contro uomo, nelle quali
spesso non era più riconoscibile l'amico dal nemico. Sempre più
arrideva la vittoria agli Svizzeri che spingevano il nemico nella parte
più indietro nel suo campo e che gli strappò 16 cannoni
e molte bandiere. Verso mezzanotte la luna tramontò e l'oscurità
divenne totale. Soltanto in quel momento si fermò il massacro disordinato;
la battaglia cessò. Ognuno si pose a riposare là dove il
caso l'aveva portato durante la lotta disordinata. I due eserciti passarono
la notte così vicini e incuranti uno dell'altro. Stanchi morti,
sanguinanti da molte ferite, bagnati ed affamati i soldati si coricarono
per aspettare il mattino. Il giorno non era stato sufficiente agli Svizzeri
per conquistare la piena vittoria, pur essendo essa stata così
vicina.
Appena albeggiò i corni chiamarono a raccolta i guerrieri disseminati
sul campo di battaglia. Ancora una volta i capitani più giudiziosi
misero in guardia contro il proseguimento della battaglia, che non faceva
prevedere nulla di buono per via delle grandi perdite e lo sfinimento
della truppa, mentre da parte nemica si poteva contare ogni ora sull'arrivo
dei rinforzi. Ma nuovamente ebbe il sopravvento la smania di combattere
degli Elvetici che pensavano di non riuscire a conciliare una ritirata
con il loro onore.
Di nuovo l'esercito elvetico formò un'avanguardia e tre schieramenti
che dovevano avanzare in un'unica linea:
"l'avanguardia con i sudditi liberi,
"il corpo centrale con truppe di Zurigo, Untewalden, Zug, St.Gallen,
Appenzell e Graubuenden.
"l'ala destra con le genti di Glarn e di Sciaffusa nonché
con alcuni sudditi liberi,
"l'ala sinistra con i contingenti di Uri, chwyz, Lucerna e Basilea.
Anche nell'esercito francese ci si preparò al proseguimento della
battaglia in una disposizione simile a quella degli Svizzeri: un forte
contingente con i lanzichenecchi, le "bande nere" nonché
numerosa cavalleria pesante occupava il centro del campo, abilmente protetto
da profondi fossati d'acqua. L'artiglieria venne tenuta più indietro
dopo che si era visto come gli Svizzeri si sforzavano a renderne innocua
l'azione nella battaglia. Meno forti erano le ali francesi che si trovavano
scaglionate ambedue più avanti; esse comprendevano il resto della
fanteria, mentre la cavalleria pesante stava ai lati estremi delle ali.
Quando il sole si levò, gli Svizzeri aprirono la battaglia. Direttamente
contro l'avanguardia tutti e tre gli schieramenti attaccarono contemporaneamente
il nemico su un largo fronte. Ancora una volta questa massa compatta venne
duramente colpita da una gragnuola mortale di pallottole e frecce che
sfoltirono paurosamente le loro file.
Ma con il loro abituale coraggio e con sprezzo senza eguale della morte,
gli schieramenti si buttarono nel fuoco contro il nemico. I vuoti lasciati
dal fuoco venivano riempiti sempre e la massa schierata in quattro contingenti
conservava sempre il suo fronte compatto. Appena la battaglia fu vicina
e l'artiglieria nemica fu ostacolata nella sua azione, gli attaccanti
ebbero il sopravvento. Le "bande nere" non riuscirono a resistere
alla violenza dell'attacco confederale e vennero respinte indietro passo
passo; anche i lanzichenecchi dovettero retrocedere alla superiore pressione.
Ora però Francesco mandò all'attacco la cavalleria pesante
da ambedue le ali. In questo modo gli Svizzeri vennero incalzati da tre
parti: dal centro e dai due fianchi. Con ultimo dispendio di forza respinsero
anche questa minaccia e con gravi perdite ricacciarono indietro gli attachi
della cavalleria.
Ma in queste lotte ininterrotte la loro forza incominciò ad impoverirsi;
non riuscì più di far breccia attraverso il centro nemico.
Ripetutamnte ci si dispose a cuneo per dividere il fronte nemico e per
compiere il lavoro di distruzione; ma la violenza dell'attacco divenne
sempre più debole e alla fine si fermò. Sfinimento, perdite
e fame avevano consumato le energie.
Anche la battaglia alle ali non riusciva più a mantenere l'efficienza
iniziale. In effetti all'inizio ai confederali che formavano le ali era
riuscito di respingere il nemico. L'ala confederale destra aveva svolto
un'azione su più largo raggio, era riuscita a sorprendere il nemico
che retrocesse di corsa verso Marignano. Ma proprio nel bel mezzo di questa
fuga francese arrivarono le truppe ausiliarie veneziane che diedero la
svolta decisiva alla battaglia: verso le dieci del mattino, quando la
lotta era nel suo momento critico, sopraggiunsero sul campo di battaglia
i cavalieri veneziani, al comando di Alviano, che erano stati richiamati
in aiuto. Essi subito fermarono la fuga dell'ala francese vinta e strapparono
agli Svizzeri il successo locale, che forse (vedi Novara) avrebbe potuto
influenzare il tutto. Ben presto l'effetto del rinforzo veneziano si fece
sentire in tutta la battaglia. Con grida ruggenti, armi tintinnanti e
immersi in una grande nuvola di polvere, i Veneziani si precipitarono
sul campo di battaglia. La loro apparizione diede ai Francesi nuove forze
mentre riempi di sgomento e scoraggiamento il cuore degli Svizzeri. Dovevano
aver creduto di avere di fronte l'intero esercito veneziano - era invece
soltanto un reparto di cavalieri che era corso avanti - e bastò
questo a far venire meno il loro coraggio. Sentirono che le energie del
loro esercito colpito a morte non erano più sufficienti contro
un nuovo esercito fresco di forze.
In questa situazione i capitani svizzeri non videro altra possibilità
che di interrompere la battaglia e di ritirarsi con il resto dell'esercito
entro le mura di Milano. Essi suonarono l'adunata e così l'esercito
si sciolse dal nemico e si riunì in una grande formazione quadrata
internamente aperta. Al riparo di questo quadrato vennero portati i feriti,
le bandiere e i cannoni, più di quelli che si erano portati il
giorno precedente da Milano, e così ebbe inizio per l'esercito
confederale la marcia di ritorno; il nemico si guardò dal molestare
questa partenza; fino all'ultimo momento gli Svizzeri restavano pericolosi.
Soltanto quando il loro gruppo doveva attraversare un fossato largo e
profondo, vi fu un ultimo attacco da parte francese e l'artiglieria nuovamente
fece fuoco sulle file dei soldati in ritirata.
Qui gli Svizzeri fecero nuovamente fronte contro il nemico e sventarono
l'attacco. Al di là del fossato la molestia cessò del tutto;
malgrado la loro forte cavalleria i Francesi non osarono inseguire gli
Svizzeri in marcia. La via verso Milano era loro aperta. Senza panico,
con contegno orgoglioso e in un ordine molto migliore di quello tenuto
il pomeriggio precedente quando erano sciamati da Milano, si ritiravano
dal terribile campo di Battaglia. Quelli tuttavia che non si erano potuti
mettere in salvo entro il quadrato, e cioè i dispersi e i feriti
vennero sterminati dai Francesi senza pietà.
Fu una ritirata di grandezza leggendaria, cui Ferdinando Hodler dedicò
una grande testimonianza, quella degli Svizzeri che se ne partivano dal
campo di battaglia di Marignano e cioè dal campo della grande politica.
Con questa ritirata, che ha suscitato l'ammirazione senza riserve del
nemico e lo stupore dei posteri, i sopravvissuti lasciarono un campo di
battaglia sul quale il loro coraggio, lo sprezzo della morte, l'aggressività
degli attacchi e la forza combattiva non erano stati inferiori che in
precedenti battaglie, sul quale campo tuttavia la supremazia numerica
del nemico ma soprattutto di mezzi tecnici ausiliari gli strapparono alla
fine la vittoria, che per tanto tempo gli era arrisa da vicino.
Imponenti erano le perdite subite nella ferale battaglia da ambedue le
parti. 12.000 fino a 14.000 cadaveri coprivano il campo di battaglia,
di cui la maggior parte erano Svizzeri che avevano subito il peso principale
dell'attacco e che erano di continuo esposti all'artiglieria pesante.
A Milano gli Svizzeri si chiesero se avrebbero dovuto invocare un nuovo
invio di soldati dalla patria per poi andare ancora contro l'esercito
francese. Ma il grave stato della truppa, l'incapacità del duca
di Milano di pagare il soldo per le loro prestazioni e l'avanzata stagione
fecero decidere il ritorno in patria. Si lasciò nel castello una
guarnigione di 2.500 uomini e già il 15 settembre, indisturbati
dai Francesi, si ritirarono nelle montagne. Dietro agli Svizzeri che partivano,
l'esercito francese entrò nella città di Milano. Dopo una
difesa valorosa di tre settimane, la guarnigione svizzera del castello
dovette cessare la sua resistenza il 5 ottobre su richiesta del debole
duca. Essa, come pure la guarnigione di Cremona, ricevette dai Francesi
la possibilità di una libera partenza dignitosa. Siccome nel frattempo
s'era sciolta la lega contro Francesco I e il papa era persino passato
al re Francese, caddero le premesse per una nuova spedizione, progettata
all'inizio, di Svizzeri in Lombardia. Al suo posto ebbe luogo il 29 novembre
1516 un "patto eterno" della Confederazione con la Francia che
in sostanza confermava il contratto di Gallarate.
Grazie alla conduzione energica delle trattative ai confederali ed alleati
rimasero le signorie di Mendrisio, Lugano, Locarno, val Maggia nonché
la Valtellina con Bormio e Chiavenna, mentre l'Eschental cadde e venne
persa per sempre a causa della disunione della politica elvetica.
La gigantesca battaglia di Marignano, come venne chiamata dal Trivulzio,
fornisce insegnamenti che vanno ben al di là di quelli soltanto
militari. La sconfitta militare, anche se inequivocabile nella sua specie,
non aveva soltanto ragioni militari ma era da riportarsi a delle cause,
che stavano radicate profondamente nella natura interna della confederazione
d'allora. La struttura politica della confederazione svizzera, nella quale
ogni singolo confederato badava ansiosamente alla sua autonomia, e gli
interessi fortemente divergenti dei cantoni non permettevano una direzione
unitaria. Mancanza di programma, indecisione e discordia erano le conseguenze;
e tali cuase dovevano influire in modo catastrofico sulla conduzione della
guerra. I cantoni occidentali erano poco interessati alla politica milanese
degli Svizzeri centrali e partecipavano alla causa già dall'inizio
con scrso entusiasmo. Molto più della corruzione messa in atto
dai francesi furono questi aperti contrasti che non portarono mai da parte
elvetica ad un'azione compatta ed energica. Non si riusciva inoltre a
risolvere esattamente la contraddizione che consisteva nel fatto che da
un lato gli Svizzeri tenevano ad esercitare una politica di potenza indipendente,
mentre dall'altra parte erano in realtà dipendenti dal soldo dei
loro committenti. Per queste difficoltà interne la politica confederale
in Italia era già deteriorata prima che si arrivasse alla sconfitta
sul campo di battaglia. Già nella pace di Gallarate c'è
la rinuncia alla grande politica; questa non si è soffocata soltanto
nel sangue di Marignano.
Alcune manchevolezze militari che si presentarono a Marignano, vanno a
braccetto con la debolezza politica della confederazione d'allora. In
prima linea vi è anche qui la famosa sottovalutazione del nemico
da parte confederale come già in precedenti battaglie, affiancata
dalla baldanza di una crescente focosità combattiva della massa
elvetica, appena si trovava nelle vicinanze del nemico e sentiva i rumori
di guerra. La catena ininterrotta di grandi vittorie, per ultimo il grandioso
successo di Novara, aveva rafforzato nei confederali la fede sulla loro
imbattibilità che li aveva portati a presunzione e superbia che
non facevano vedere loro in faccia la realtà. Coraggio elementare
in battaglia e sprezzo quasi appassionato della morte facevano diventare
gli Svizzeri, in vista del nemico, dei guerrieri insuperabili; nei momenti
d'inerzia, nel campo e nei periodi fra le battaglie mancavano di quella
qualità del vero soldato, che noi oggi definiamo disciplina, e
cioè la pazienza e l'educazione soldatesca. Le diserzioni particolarmente
numerose confermano questa tesi. Una volta davanti al nemico, la truppa
sfuggì di mano ai suoi omandanti davanti a Marignano nel suo sfrenato
impeto guerresco e si buttò in una battaglia che non gli era possibile
vincere, perchè il nemico stava in una posizione forte, la sua
fanteria era maggiore di quella svizera nelle proporzioni di 3 a 1, l'artiglieria
di 12 a 1 e la cavalleria di circa 50 a 1. Che i confederati fossero vicini
alla vittoria nella battaglia malgrado tutto ciò, e dovuto alla
loro immensa forza combattiva.
Si era dimenticato anche da parte confederale di tener conto dello sviluppo
tecnico che aveva incominciato a prender piede nelle ultime battaglie.
Soltanto con incredibile dispendio di energie e con grandissime perdite
si era diventati padroni a Novara dell'artiglieria nemica. I confederati
non ne trassero alcun insegnamento, essi trascurarono ancora la propria
artiglieria, speravano che la vittoria di Novara si sarebbe ripetuta.
La loro cieca fiducia sulla irresistibile pressione dello schieramento
quadrilatero svizzero, sul panico che l'attacco elvetico riusciva ad esercitare
sempre sul nemico e sulla propria superiorità più volte
dimostrata in battaglie ravvicinate, facendo loro credere di poter avere
la meglio sull'azione dell'artiglieria nemica; se per una volta l'artiglieria
riusciva a sfuggire loro, allora abbandonavano la battaglia per prendere
decisioni. In questo modo ci si teneva aggrappati ad una tattica tradizionale
che era al tempo stesso primitiva ed elementare e che consisteva in fondo
di riuscire a sbaragliae il nemico fidando solo del proprio superiore
impeto nel corpo a corpo.
Ma il conto non tornava più come prima. L'artiglieria francese,
abilmente condotta e impiegata in massa, era così efficace che
le perdite da essa causate erano troppo grandi; le file confederali già
nell'avvicinamento subirono un tale indebolimento, che mancò la
forza per una pressione finale vittoriosa.
Perciò l'artiglieria divenne l'effettivo vincitore di Marignano.
Gli Svizzeri cercarono di ridurre l'azione dell'artiglieria nemica sviluppando
la loro battaglia su un più largo fronte, allineando cioè
i loro schieramenti. Questo riuscì solo in parte e si dovette rinunciare
ad una qualsiasi azione in profondità. Mancava così la retroguardia
e anche un centro guida della riserva che nel momento critico, quando
la battaglia stava nel suo punto decisivo, avrebbe potuto capovolgere
la situazione a favore del proprio esercito. All'artiglieria si affiancava
un secondo elemento determinante nella battaglia e cioè la cavalleria
pesante anzicchè quella legera di prima. Nella stretta collaborazione
con la fanteria ed artiglieria, la cavalleria pesante cusava ai confederali
molta più fatica degli eserciti di cavallieri attaccanti poco compatti
e isolati di precedenti battaglia.
A Marignano la battaglia è diventata per la prima volta un'azione
pienamente combinata, nella quale le tre specie di armi agivano insieme
come "armi alleate". Era ormai tramontata l'era della semplice
fanteria, che conosceva soltanto lo scontro degli eserciti e il corpo
a corpo con lancio di frecce e fendenti; anche la fanteria necessitava
per vincere dell'appoggio delle altre armi. Gli Svizzeri, che dominarono
per duecento anni i loro campi di battaglia, essendo fondatori di una
fanteria indipendente, si rifiutarono fino all'ultimo di riconoscere lo
sviluppo che si era fatto strada con il miglioramento del corpo d'artiglieria
e con l'uso della cavalleria come corpo combattente a cavallo. Marignano
dovette aprire loro gli occhi.
Da parte elvetica si era trascurato anche un altro fatto: che Francesco
I e il suo esercito si servirono del prestigio e lustro dei suoi condottieri,
che si prodigarono per la prima volta in forma diretta nella battaglia,
dando l'esempio ed erano l'elite della nobiltà francese.
Le grandi perdite che la nobiltà subì a Marignano erano
una dimostrazione che questi signori non si erano risparmiati, ma anzi
avevano preceduto a cavallo la loro gente. Franceso I aveva assunto una
grande influenza personale nella battaglia. Egli appariva ovunque sul
campo in grande magnifica armatura lucente, coperta da un mantello azzurro
ricamato con gigli dorati. Se anche il suo agire non era determinante
nella direzione generale degli avvenimenti bellici, tuttavia la coraggiosa
presenza del re agiva in maniera stimolante e abbligante sulla truppa.
Si potrebbe obiettare che i nuovi sviluppi tecnici non furono necessariamente
determinanti nella battaglia di Marignano per il successo, perchè
gli Svizzeri erano stati più volte vicini alla vittoria del nemico
nel corso della battaglia. Mentre ad esempio se fossero stati presenti
i 10.000 soldati delle città occidentali che erano ritornati in
patria oppure se i Veneziani, la cui azione fi innanzitutto morale, fossero
arrivati soltanto alcune ore più tardi sul campo di battaglia,
la battaglia avrebbe potuto facilmente avere una svolta diversa. Ma la
storia non risponde ai "se". Certo è, che se anche si
fosse arrivati ad una vittoria, ciò sarebbe avvenuto con perdite
spropositatamente grandi.
A lungo andare gli Svizzeri non avrebbero potuto sostenere un modo di
combattere superato. Il progresso era inevitabile. Esso avrebbe potuto
forse essere ritardato; ma non era possibile fermarlo. Le battaglie di
mercenari della Bicocca (1522) e di Pavia (1525) sono una conferma di
tutto ciò, anche se combattute in essenziali condizioni diverse.
Marignano non fu un "incidente" in seguito a condizioni esterne
sfavorevoli, ma una conseguenza di una fatale evoluzione.
Così Marignano rimase anche esternamente un punto di svolta nel
modo di dirigere una battaglia, in cui la fanteria non sarebbe stata più
l'unica arma, sebbene rimanesse ancora la più importante. La partecipazione
che la Svizzera eserciterà d'ora in poi nello sviluppo nel corso
delle guerre, avverrà non più nel servizio della causa confederale,
ma al soldo dei principi. La sconfitta di Marignano non pregiudicherà
questo operato: ma al contrario questa eroica battaglia sarà la
pietra miliare per una nuova fama.
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