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Georg
Thurer
Guido Calgari
Marignano,
fatale svolta della
politica svizzera
Alcuni fatti e alcune
riflessioni per i
giovani Confederati,
nel 450° della
battaglia 1515-1965
1965
Comitato per la celebrazione
del 450° di Marignano
Talacker 16, 8022 Zurich
Composizione, stampa e
rilegatura: Huber & Co. AG,
Frauenfeld.
Zincotipi: Schwitter AG. Zurich
Stampato in Svizzera.
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Campagne
di mercenari in Italia
Gli Svizzeri non erano i soli a guardare cupidamente al "giardinn
dell'imperio"; il re di Francia, pacificato il paese dopo la guerra
dei Cent'anni contro l'Inghilterra e consolidata l'unità nazionale
grazie alla scomparsa del rivale Carlo il Temerario, si preparava a discendere
nella Penisola. Era re Carlo VIII°, brutto e deforme di corpo, spirito
fantastico che sognava grandi imprese memorabili (tra l'altro, voleva
mettersi alla testa di una lega dell'occidente per cacciare i Turchi dall'Europa)
e che era stato animato da un principe italiano, Lodovico il Moro, a muovere
verso l'Italia.
La Penisola aveva vissuto in modo agitato e drammatico i primi cinquant'anni
del Quattrocento, dilaniata sopra tutto dalle guerre fra le tre potenze
del nord: Firenze, Milano, Venezia; poco dopo la metà del secolo,
tuttavia, con la Pace di Lodi, aveva raggiunto l'equilibrio e la tranquillità;
furono quarant'anni di pace e di benessere, durante i quali venne maturando
e stupendamente dispiegandosi quella gloriosa stagione dell'arte e del
pensiero che si chiama Rinascimento; le corti delle Signorie erano centri
fervidi di cultura, le città s'arricchivano di continuo grazie
ai commerci, all'artigianato, alla navigazione; i più geniali artisti,
ospiti di Principi orgogliosi del loro mecenatismo, drizzavano monumenti
e templi, affrescavano pareti, dipingevano tele, progettavano grandi opere
del genio civile. Periodo di alta civiltà, di benessere economico,
di eleganza e di lusso: stagione solare dello spirito …
Ed ecco, d'un tratto, come l'addensarsi d'un temporale in pieno meriggio,
l'annuncio della discesa di Carlo VIII° che, aizzato dal Moro, muoveva
alla conquista del Regno di Napoli (1494), ponendo fine ai brillanti quarant'anni
di pace e dando inizio alle sciagure d'Italia; la sua, infatti, fu la
prima di tante funeste invasioni - Francesi, Svizzeri, Lanzi tedeschi,
Spagnoli, … - che rovinarono la Penisola e la portarono alla schiavitù.
A Milano c'era Lodovico il Moro, come s'è detto. Quando, nel 1476,
il Duca suo fratello era stato assassinato nella Chiesa di Santo Stefano,
il figlio del morto aveva raccolto l'eredità ducale; ma si trattava
di un fanciullo di sette anni, Gian Galeazzo, incapace di regnare e quindi
sotto la tutela della madre e del ministro Cicco Simonetta (lo stesso
che ordinò alle truppe milanesi la spedizione terminata drammaticamente
a Giornico). Lodovico, zio del giovane Duca, cominciò allora la
scaltra opera intesa a soppiantare l'erede legittimo del Ducato: ne allontanò
la madre, fece cadere in disgrazia e decapitare il Simonetta, divenne
tutore di Gian Galeazzo e, quindi, signore e despota del Milanese. Tipico
signore del Rinascimento, raffinato e scellerato a un tempo, amante del
bello, dell'arte, protettore di artisti e studiosi, ma anche capace di
raggiri e perfidie com'erano nella pratica di un'epoca in cui, accanto
alle raffinatezze dell'arte e all'eleganza della vita s'erano infiltrati
negli spiriti lo scetticismo, l'immoralità, il gusto smodato dei
piaceri terreni, l'irreligiosità. La corte del Moro s'ispirava
al modello di quella di Lorenzo de' Medici, il Magnifico signore di Firenze;
a Milano, il Moro s'era fatto mandare da Lorenzo il grande Leonardo da
Vinci ch'era divenuto in breve la perla radiosa della corte lombarda;
Leonardo aveva modellato il cavallo del monumento al padre del Moro, Francesco
Sforza, creatore della nuova dinastia e mecenate di grandi opere pubbliche:
il Canale della Martesana, l'Ospedale maggiore, la ricostruzione del Castello
visconteo. Oltre al cavallo, considerato dagli scrittori dell'epoca la
più imponente statua equestre di tutti i tempi, il divino Leonardo
aveva dipinto due stupende Madonne, affrescato l'Ultima Cena nella Chiesa
di Santa Maria delle Grazie, fatto alcuni memorabili ritratti, abbellito
l'interno del Castello e compiuto studi mirabili d'ingegneria intorno
a problemi d'idraulica e di urbanistica.
Dopo la discesa di Carlo VIII° che, occupata Napoli senza avere incontrato
resistenza, era tornato in Francia per morirvi, le vicende di Lodovico
il Moro volsero al peggio; come colpito da una serie di maledizioni, fu
afflitto da lutti familiari e da altre disgrazie che raggiunsero il culmine
quando il nuovo Re di Francia, Luigi XII°, accampando certi diritti
ereditari da parte della nonna (ch'era una Valentina Visconti) fece sapere
di scendere in Italia per riprendere Napoli, ma anche per occupare la
Lombardia. Era il 1499; l'imperatore Massimiliano, impegnato nella guerra
di Svevia contro gli Svizzeri, non potè dare aiuti al Moro, del
quale era cognato. Il Re di Francia aveva seimila mercenari svizzeri,
entrò in Milano senza quasi trovare resistenza, e naturalmente
fece occupare da guarnigioni francesi tutti i castelli del Ducato, compresi
quelli di Bellinzona. Il Moro era fuggito. Il famoso cavallo di Leonardo
servì da bersaglio alle frecce dei Guasconi e venne irrimediabilmente
rovinato.
S'è accennato alle migliaia di mercenari svizzeri. E' un capitolo
drammatico e fosco della storia, per comprendere il quale bisogna riflettere
su due nuove circostanze della vita d'allora, la corruzione dei costumi
e le così dette "pensioni" dei Re stranieri. La facilità
dei guadagni e le idee pagane dei nuovi tempi, così come l'esempio
che veniva dalle corti europee, avevano mutato l'animo dei Confederati;
coscienza religiosa e fedeltà alla parola erano scadute nei cuori,
contese e delitti s'accumulavano, la smania del lusso e dei piaceri aveva
preso le stesse classi popolari, l'immenso bottino di Borgogna - stimolo
di corruzione e d'intrighi - aveva creato nuove, improvvise ricchezze,
persino i contadini scambiavano i ruvidi panni con il velluto, e in tutto
il paese si diffondeva la bramosia dei facili guadagni mediante l'avventura
della guerra, perdendosi in egual tempo il senso dell'onesta fatica sulla
terra avita o nelle officine. La corsa al servizio mercenario veniva poi
incoraggiata dagli agenti e arruolatori dei Re stranieri, che distribuivano
denaro e "pensioni", cioè regali in monete d'oro e d'argento,
e che aizzavano di continuo la cupidigia. C'erano pensioni che andavano
nelle casse della Stato (città o Cantone montanaro che fosse) e
che corrispondevano a precisi impegni militari, le "capitolazioni";
c'erano però anche pensioni che affluivano segretamente nelle tasche
dei capi influenti, dei comandanti militari, degli uomini politici, dei
consiglieri; così i condottieri di milizie e i magistrati dei Cantoni
promettevano soldati, li reclutavano, li inviavano sui campi di battaglia
dell'Europa; siffatta corruzione doveva rivelarsi ben presto fatale per
la Svizzera.
Incitato da Massimiliano, anche il Moro si diede a cercare mercenari;
la guerra di Svevia terminata, gli fu facile trovarne nella Svizzera orientale,
tra i Grigionesi, e nel Vallese dove il vescovo Matteo Schiner - che odiava
i Francesi ed era per l'impero - gli fornì migliaia di uomini.
Grazie alle nuove truppe del Moro, il Re di Francia perdette Milano; bastarono,
come pittorescamente dice il Machiavelli "le forze proprie di Lodovico",
cioè "uno duca Lodovico che romoreggiasse in su i confini",
per sloggiare gli occupanti francesi. Ma anche Luigi aveva denaro a mucchi,
si procurò nuove schiere di mercenari, ridiscese in Italia e riuscì
ad accerchiare il Moro dentro la città di Novara. Fuori e dentro
Novara stavano dunque soldati svizzeri: assedianti e assediati. La Dieta,
informata della situazione, mandò esortazioni, ordini di ritornare
in patria, di evitare la lotta fratricida. Finalmente, i mercenari delle
due parti s'intesero: quelli di Re Luigi avrebbero lasciato uscire da
Novara i soldati del Moro senza molestarli. Ma tra le colonne che sfilavano
s'inserì Lodovico, travestito da svizzero, e un ufficiale dell'altra
parte lo riconobbe e lo additò ai Francesi; il Moro fu catturato
e portato a finire la vita prigioniero in Francia; il "tradimento
di Novara" gettò un'ombra funesta sugli Svizzeri, anche se
il traditore, richiamato dal suo governo, venne processato e giustiziato
sulla piazza di Altdorf.
Nel frattempo, che cosa avveniva a Bellinzona? La borgata dei Tre castelli,
detti originariamente di San Michele, di Montebello e di Sasso Corbaro,
era rimasta fedele al suo Duca, quindi aveva accolto i Francesi quali
nemici; a un certo punto, anzi, era insorta contro il nuovo presidio mettendolo
in fuga. Al momento di Novara, tuttavia, sentendosi senza più protezione
ed esposta anzi a rappresaglie nel caso che i Francesi fossero tornati,
essa richiese l'aiuto degli Svizzeri e stipulò con i Tre Cantoni
primitivi il cosiddetto atto di "dedizione volontaria"; con
esso, si affidava a Uri, Svitto e Unterwalden - che allora diedero il
loro nome ai castelli - come a protettori e alleati; per ricordo durevole
del nuovo destino della Turrita, i Tre Cantoni fecero coniare un grosso
d'argento nella zecca di Bellinzona, con data del 1505 e il motto orgoglioso
attribuito a Bellinzonesi e Confederati: "In libertate sumus".
La dedizione di Bellinzona avvenne nell'aprile del 1500; la data incisa
sulla moneta rammenta la pace di Arona (1505) tra il Re di Francia e gli
Svizzeri, nella quale la Turrita veniva riconosciuta agli Svizzeri.
Così, dopo poco più di cent'anni di politica gottardista,
tutto il corso superiore del Ticino, fino alle porte di Locarno, era in
potere di quei Confederati che avevano fondato la Svizzera.
Nella tarda estate di quello stesso 1505, la Dieta calcolò che
le perdite dei mercenari sommassero negli ultimi anni a oltre trentamila
uomini; il vescovo di Sion denunciò gli abusi di quei soldati di
ventura e i mali che ne venivano al paese, primo fra tutti la scomparsa
del senso della disciplina e dell'onore. Quanti lutti si sarebbero potuti
evitare, avessero avuto i capi un bricciolo di saggezza politica e di
moderazione! Con un "proclama circa le pensioni" la Dieta ordinò
che nessuno nella Confederazione potesse concludere accordi con l'estero
senza il consenso della maggioranza degli Stati svizzeri; in egual tempo,
venne proibito ai singoli di accettare regali dall'estero. L'accordo sarebbe
dovuto essere rinnovato e giurato ogni anno, e se un Cantone si fosse
rifiutato sarebbe stato tenuto "in attesa fuor della porta",
cioè escluso dalla Dieta. Belle parole … Ma ormai più
nulla, di fronte alle nuove generazioni ch'erano state corrotte dall'esempio
degli anziani, più nulla poteva trattenere la corsa all'arruolamento.
Già pochi mesi dopo la sua pubblicazione, il "proclama sulle
pensioni" era dimenticato; con amarezza notava uno scriba glaronese
che, benchè inserito nelle leggi della Confederazione, non "era
mai contato gran che …".
Nuove potenze intanto entravano nel gioco politico che aveva per posta
la Penisola. Il Regno di Spagna anzitutto, che dieci anni prima aveva
cacciato gli Arabi e s'era rafforzato in unità nazionale, e che
- con la scoperta dell'America compiuta da Cristoforo Colombo per suo
conto - stava divenendo una potenza di prim'ordine, padrona di terre e
di oceani, beneficiaria di nuove, immense ricchezze. Dall'Adriatico, attraverso
i suoi domini di terraferma tornava ad affacciarsi sull'Italia la politica
di Venezia, accorta politica sorretta dalla forza d'importanti eserciti.
Negli Stati del Papa grandeggiava la figura del nuovo Pontefice Giulio
II° della Rovere, temperamento intrepido di uomo politico e di guerriero,
e protettore a un tempo dei più geniali artisti dell'epoca; basti
pensare che nei primi anni del Cinquecento lavoravano contemporaneamente
per lui Bramante, Raffaello e Michelangelo … Fu Giulio a circondarsi
della "Guardia svizzera" e a concedere agli Svizzeri ogni sorta
di favori e di onori, per averli ligi alla sua politica. Dal Trentino
si avvertivano le ambizioni e i preparativi di Massimiliano; l'imperatore
asburgico doveva riscattarsi dall'onta di aver abbandonato al suo triste
destino Lodovico Sforza; si sentiva in dovere d'assistere i due giovani
figli del Moro rimettendoli nella città dei loro padri; incoraggiato
dai parenti vicini e lontani pensava di ridare credito alla sua corona
mediante un viaggio sino a Roma e l'incoronazione in San Pietro, quale
titolare dell'Impero romano e germanico (dovette, purtroppo, rinunciare
al viaggio solenne e contentarsi di un'incoronazione fatta a Trento, e
nemmeno per opera del Papa, ma soltanto di un suo Legato …). Massimiliano
cominciò dunque con una clamorosa assise imperiale a Costanza;
nella città di confine anche gli Svizzeri vennero invitati e si
lasciarono facilmente strappare la promessa di seimila mercenari che accompagnassero
l'Imperatore sino alla Città eterna. Il Re di Francia, allora,
smanioso d'impedire il nuovo orientamento asburgico dei Cantoni, mise
in opera tutte le arti delle lusinghe diplomatiche e del denaro; il cronista
bernese Anshelm, in buona posizione per osservare il gioco dei Francesi,
scrisse che il Re gettò oro a piene mani e in tutte le direzioni:
"A uomini, donne, ragazzi, servitori, vivandiere, prostitute, per
le strade e nei vicoli, nelle città e nei villaggi, nei bagni pubblici
e nelle osterie, in occasione dei riti in chiesa e dei settimanali mercati
in piazza, dalle bettole fin su alle sedi delle corporazioni …, dovunque
potesse arrivare l'ambasciatore della Francia".
Giulio II° non pensò neppure un istante di riconoscere all'Imperatore
il dominio dell'Italia. Più che i progetti di Massimiliano, lo
interessava il modo di cacciare gli stranieri dalla Penisola; stranieri
e però barbari erano tutti, Francesi, Tedeschi, Spagnoli. "Fuori
i barbari!" fu il suo grido, caratteristico anch'esso del Rinascimento:
un rinascimento politico che completasse quello della cultura. La potenza
guerriera degli Svizzeri dovette sembrargli il mezzo migliore all'impresa,
e l'uomo migliore il vescovo di Sion, Matteo Schiner. Figlio di poverissima
gente, ex pastore di capre, lo Schiner aveva studiato nel Seminario di
Como e ricevuto gli ordini e la consacrazione episcopale a Roma. Mentre
la maggior parte dei capi svizzeri, senza idee chiare, pencolavano tra
Francia e Impero, egli sapeva esattamente la sua linea politica; era,
come già detto, antifrancese, in quanto la Francia - venisse da
sud o da nord - poteva essere un pericolo per la sua Valle del Rodano
e per la personale sua posizione di Principe e di Vescovo. Come spesso
i capi usciti dall'umile plebe, era orgogliosissimo, ma egualmente austero
e incorruttibile; al popolo e al clero offrì sempre l'esempio d'una
vita severa, senza alcun lusso, dominata da uno spirito che si conservò
uguale nella capanna del pastore e nel palazzo del Principe-vescovo; se
profuse denaro e comprò soldati, lo fece perché conosceva
quella che egli stesso definì "la malattia nazionale degli
Svizzeri", ma in pari tempo denunciò e combattè con
la sua fiera eloquenza ogni compromesso politico determinato dall'oro
e dai donativi degli stranieri. Animato e addirittura ossessionato dall'idea
della preminenza di papato e Impero (si è tentati di dire "idea
dantesca"), fu il migliore avvocato di Papa Giulio, al quale del
resto per carattere somigliava.
Fina dal suo primo incontro con Giulio II°, lo Schiner tornò
ai suoi monti quale Nunzio del Pontefice; un anno e mezzo più tardi,
ricevette la porpora di Cardinale, anche per il merito di aver saputo
concludere un'alleanza politica tra il Papa e gli Svizzeri.
Ora, il Papa poteva avviare l'impresa della liberazione: "cacciare
i barbari servendosi di altri barbari". Per prima cosa, creò
la "Lega santa" (1511) nella quale entrarono la Spagna, Venezia,
l'Inghilterra, l'Impero, e alla quale i Cantoni svizzeri avevano assicurato
un contributo militare di seimila soldati. Essi costituivano del resto
il solo elemento guerresco di qualche peso, chè gli eserciti della
Lega santa erano stati duramente sconfitti a Ravenna (1512) dal giovane
condottiero dei Francesi, Gastone di Foix; un brutale rovescio militare
per il papa che, chiuso in Castel Santangelo, temette di veder comparire
d'un tratto i nemici sotto le mura di Roma. Ma i Francesi non seppero
sfruttare la vittoria, e il loro giovane capitano venne anzi circondato
dagli Spagnoli, che inseguiva, e ucciso.
Intanto, per i passi delle Alpi, accorrevano messaggeri verso i cantoni
a sollecitare aiuti; non si trattava più di "capitolazioni"
cioè di mercenari; si trattava di "proteggere la santa Chiesa",
questa era la nuova parola d'ordine, contro il Re di Francia; un impegno
politico, dunque, che toccava gli Svizzeri come per cosa propria. La loro
ostilità alla Francia era del resto cresciuta per un malaugurato
incidente: alcuni messi dei paesi di Svitto, di Berna e di Friburgo, malgrado
tenessero bene in mostra gli stemmi cantonali, erano stati catturati dai
Francesi a Lugano e annegati senza misericordia.
Sullo scorcio del 1511 si registreranno discese di eserciti in Italia,
ritornati senza aver combattuto oppure richiamati dalla Dieta federale.
Fu nell'aprile del 152, all'incirca durante le giornate di Ravenna, che
la Dieta decise la grande spedizione in Lombardia.
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