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La Battaglia sui libri

Georg Thurer
Guido Calgari

Marignano,
fatale svolta della
politica svizzera

Alcuni fatti e alcune
riflessioni per i
giovani Confederati,
nel 450° della
battaglia 1515-1965

1965
Comitato per la celebrazione
del 450° di Marignano
Talacker 16, 8022 Zurich
Composizione, stampa e
rilegatura: Huber & Co. AG,
Frauenfeld.
Zincotipi: Schwitter AG. Zurich
Stampato in Svizzera.

Tre anni di potenza
Tutto l'arco alpino, dal Monte Bianco allo Stelvio, era controllato dagli Svizzeri; le sorti del Ducato stavano nelle mani dei Cantoni. Questa volta, essi non si contentarono di lodi e di donativi, ma cominciarono a occupare le terre che più gli interessavano; così Locarno (sulla bocca degli Svizzeri, (Luggarus) e Lugano (Lauis), Mendrisio (Mendris) e la Valle Maggia (Meiental), l'Ossola (Thum) da una parte, e Bormio, la Valtellina e Chiavenna (Klaven) dall'altra divennero proprietà degli Svizzeri. A occidente, Berna, Friburgo e Soletta si spinsero su Neuchatel che era nelle mani di un Principe francese, Soletta s'impadronì della valle della Birsa, Berna fece preparativi per invadere addirittura la Borgogna.
Alla Dieta di baden, sul finire dell'estate, affluirono i rappresentanti di tutte le potenze dell'Europa, a gara nel conquistarsi il favore e l'alleanza degli Svizzeri: Papa, Imperatore, Re di Spagna, Doge di Venezia, Duchi di Milano, di Savoia, della Lorena e altri signori erano rappresentati sulle rive della Limmat da schiere fastose di ambasciatori e di cortigiani; la Lega dei montanari non era forse divenuta una terribile potenza? Chi poteva impedirle di assumere ora una parte di prim'ordine nel determinare l'assetto dell'Europa? "Non esisteva potenza straniera che potesse rovesciarla o distruggerla", così commentava il cronista bernese Anshelm.
Il ricordo del tradimento fatto al Moro dodici anni avanti da uno Svizzero turbava ancora le coscienze dei capi; anche per doverosa riparazione, la Dieta decise di consegnare Milano al giovane Massimiliano Sforza, che sarebbe dovuto diventare un docile strumento della politica gottardista degli Svizzeri e che, per parte sua, s'impegnava di meritare la protezione elvetica mediante un dono di centocinquanta mila ducati e un contributo annuo di altri 40 mila; il Ducato di Milano diveniva pertanto un "protettorato" degli Svizzeri. A Milano, il 29 dicembre del 1512, i delegati della Dieta consegnarono solennemente le chiavi della città al figlio del Moro, mentre il Landammano di Zugo, Giovanni Schwarzmurer, leggeva un ornato discorso in latino e in "lombardo". Da parte sua, il Duca nominava il cardinale Schiner marchese di Vigevano e il Papa lo faceva vescovo di Novara; così il condottiero vallesano assumeva un'importanza politica decisiva nelle faccende dell'alta Italia; il suo successo fu turbato soltanto - fra tanti onori - dalla morte del grande amico, Giulio II°, al quale succedette un Medici, il cardinale e umanista Giovanni che prese il nome di Leone X.
Ma c'era qualcuno che non considerava chiusa la partita in Lombardia: Re Luigi di Francia.
Nei primi mesi del 1513, che i passi alpini coperti di neve trattenevano ancora gli Svizzeri nelle loro contrade, era riuscito al Re di far passare un esercito nella Penisola e di riprendere parte della Lombardia. Gli era anche riuscito di staccare Venezia dalla Lega santa e di farsela un'altra volta alleata. Comandavano l'esercito francese, forte di ventidue mila uomini, i marescialli Trivulzio e La Trémouille che sorpresero lo Sforza e lo chiusero dentro Novara con i suoi quattromila mercenari.
Novara, un'altra volta. La "seconda" Novara. Ma questa volta aureolata di gloria militare. Tra le schiere del Re di Francia, numerosa e gagliarda quella dei mercenari tedeschi, i famosi lanzichenecchi, chè il Re aveva cominciato ad assoldare lanzi in Germania e questo era un motivo, oltre il rifiuto d'accrescere le paghe, di acerbo rancore da parte degli Svizzeri i quali vedevano arrivare concorrenti nella milizia venale e nella fama bellica a cui tenevano non meno che al denaro. Le truppe del Re avevano dunque dato un primo assalto e infranto le mura in un punto con le loro artiglierie, aprendovi una gran breccia che gli Svizzeri sprezzantemente non avevano neppure riparato, limitandosi a tendere dei teli per nascondere i loro movimenti; gli assedianti non avevano però osato l'assalto, anzi s'erano ritirati e accampati all'Ariotta, un cascinale a qualche chilometro dalla città. Sapevano che una parte dei mercenari elvetici, chiamati dal Duca Massimiliano e da Papa Leone, erano chiusi in Novara, che che un'altra parte stava sopraggiungendo a gran marce, dal Grimsel e dal Sempione, e non volevano essere presi tra due fuochi. Con gli assediati, poco più di quattromila uomini, era quel Giacomo Mottino, capitano di Uri ma d'origine leventinese, del quale la tradizione accolta da alcuni storici del tempo e letterariamente ampliata dal Guicciardini fece l'eroe della giornata. Racconta lo storico fiorentino che il Mottino, dopo aver esortato i suoi uomini con feroce e ardentissimo spirito) il Giovio attribuisce invece l'appello a un "mastro Graf" di Zuirigo), senza attendere nemmeno il primo chiarore dell'alba guidò la sortita degli Svizzeri e la sorpresa contro il campo francese. A gran passi, malgrado il fulminare delle artiglierie nemiche, i fanti svizzeri avanzarono verso l'Ariotta, incuranti dei vuoti aperti nelle loro file dal fuoco francese, poi si azzuffarono con i lanzi tedeschi - tremendo combattimento, dunque, tra tedeschi di Germania e tedeschi di Svizzera - dei quali fecero strage; la cavalleria francese, ritardata dal terreno acquitrinoso, non potè efficacemente intervenire. Dopo sei ore, i Francesi erano sbaragliati e messi in fuga fino alla Alpi, fuga resa più tragica dalla ferocia dei contadini che si appostavano sulle strade, per uccidere e spogliare i dispersi. Francesco Guicciardini, nell'undicesimo libro della sua "Storia d'Italia", commenta con ammirato stupore: "Non fece mai la nazione de' Svizzeri né la più superba né la più feroce deliberazione. Pochi contro a molti, senza cavalli e senza artiglierie, e contro ad un esercito potentissimo di queste cose, non indotti da alcuna necessità … elessero spontaneamente di tentare piuttosto quella via nella quale la sicurtà fosse minore ma la speranza della gloria maggiore, che quella nella quale dalla sicurtà maggiore resultasse gloria minore".
Il 6 giugno 1513, a Novara, il Re perdette circa settemila uomini, fra cui la quasi totalità dei lanzi, ma anche gli Svizzeri lamentarono le più gravi perdite di tutte le battaglie combattute fino allora - oltre duemila soldati -, tra esse quella del Mottino, trafitto "mentre combatteva, nella gola da una picca". L'Italia era di nuovo liberata dai Francesi, il Duca Massimiliano tornava a Milano rinnovando ai Confederati le più commosse attestazioni di amicizia (!Quanto mi avete conservato, anzi reso col vostro valore e con il vostro sangue, deve ormai appartenere a voi come me stesso"), i Bernesi annunciavano che "con l'aiuto di Dio potremmo ormai percorrere la Francia in tutti i sensi", nelle corti d'Italia e in ispecie a Roma la retorica degli umanisti innalzava lodi ai vincitori, facendo confronti - in favore degli Svizzeri - tra l'episodio di Novara e le più famose battaglie dell'antichità, la Lega santa riprendeva vigore, malgrado l'indecisione e l'ambiguità di Leone X che, uomo di cultura e di arte, non aveva certamente l'istinto politico e la fierezza del suo predecessore. In quelle settimane di generale euforia, soltanto l'ambasciatore fiorentino Francesco Vettori vedeva con qualche chiarezza davanti a sé; pur ammirando grandemente il valore degli Svizzeri e la loro fedeltà, anche se mercenari, riteneva ch'essi fossero incapaci di dare ordine e di amministrare un grande popolo (l'italiano) e ciò per lo stesso frazionamento e il particolarismo delle loro minuscole Repubbliche. L'infelice Massimiliano non poteva in quel momento supporre che, soltanto due anni più tardi, la fortuna gli avrebbe voltato le spalle, e che egli si sarebbe rassegnato ad andare a vivere a Parigi con una pensione del Re Francesco I°, sentendosi finalmente e malinconicamente "libero dalla tirannide degli Svizzeri, dalle frodi degli Spagnoli, dalle vessazioni dell'Imperatore".
L'esaltazione del successo di Novara si propagò alla Confederazione, nel suo interno; nuove spedizioni vennero progettate e messe in moto. Disgraziatamente, molti vecchi Capitani del Re di Francia e agenti insidiosi erano riusciti e riuscivano tuttavia a condurre sotto le bandiere francesi nuovi mercenari, sedotti e comprati, così che ancora una volta venivano a trovarsi di fronte, in avversi campi, i figli della stessa terra. L'autorità tardò a reagire; il risultato cocente fu una serie funesta di rivolte delle campagne contro la doppiezza e gl'intrighi dei governi cittadini, con episodi clamorosi di processi popolari e di esecuzioni sommarie. Berna, Lucerna, Soletta vennero percorse ripetutamente dal furore delle plebi.
Finalmente, nell'autunno del 1513, guidate dai Bernesi le schiere confederate invasero la Borgogna per quella che si rammenta quale Guerra di Digione; la città, sotto le cui mura gl'invasori erano rapidamente arrivati, non poteva difendersi e allora il La Trémouille, governatore della Borgogna, giocò di astuzia avviando di sua propria autorità trattative di pace; le basi di esse consistevano nel riconoscimento del protettorato svizzero su Milano, Cremona e Asti, in una più rigorosa regolamentazione degli arruolamenti futuri in favore della Francia e nel pagamento di un'indennità di quattrocento mila corone da parte del Re. I Confederati commisero l'errore di accettare e di ritirarsi senza garanzie effettive che gli accordi con il governatore sarebbero stati rispettati; infatti, il Re non li accettò, dichiarando "estorto" il trattato di Digione. Agli Svizzeri delusi non restò quindi che continuare la guerra, mentre il popolo accusava sempre meno velatamente i capi militari di essersi lasciati comperare dall'oro del La Trémouille. La ritirata dalla Borgogna fu precipitosa, accompagnata da episodi gravissimi di indisciplina e - in ragione della prosperità della celebrata zona vinicola - punteggiata da infami saccheggi. La rapidità della ritirata permise tuttavia in qualche modo ai Confederati di salvare la faccia.


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