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Georg
Thurer
Guido Calgari
Marignano,
fatale svolta della
politica svizzera
Alcuni fatti e alcune
riflessioni per i
giovani Confederati,
nel 450° della
battaglia 1515-1965
1965
Comitato per la celebrazione
del 450° di Marignano
Talacker 16, 8022 Zurich
Composizione, stampa e
rilegatura: Huber & Co. AG,
Frauenfeld.
Zincotipi: Schwitter AG. Zurich
Stampato in Svizzera.
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La
battaglia di Marignano, 13/14 settembre 1515
Avessero insistito nell'assedio di Digione, i Confederati non sarebbero
stati giocati da Luigi XII° che, in quel momento, si trovava davvero
in un vicolo cieco: la Francia invasa da due parti, dagli Svizzeri e dagli
Inglesi, l'esercito disorientato, i capi militari discordi … Quando,
tuttavia, entrambi gl'invasori si furono ritirati, il Re riprese a carezzare
quel che fu il sogno di tutta la sua vita: l'annessione della Lombardia.
Ma i suoi rinnovati preparativi vennero troncati dalla morte, il Capodanno
del 1515. Gli succedette sul trono il ventenne Francesco I°, colui
che sarebbe stato il grande, brillante, glorioso Re di Leonardo da Vinci
(che onorò e ospitò in Francia negli ultimi anni di vita
del prodigioso artista) e ad un tempo l'infelice protagonista del duello
tra Francia e Spagna, impegnate entrambe nella conquista dell'Italia.
Francesco riuscì anzitutto ad attirare Venezia dalla sua parte,
per modo di poter prendere la Lombardia in una tenaglia. La defezione
della Serenissima dalla Lega santa incitò il cardinale Schiner
a raddoppiare gli sforzi per consolidare l'alleanza che comprendeva, ora,
gli Svizzeri, l'Imperatore, il Duca di Milano, la Spagna e il Pontefice.
A Lione venne concentrata la forza francese; si trattava del più
bell'esercito che fosse mai stato messo su piede di guerra: cinquantacinque
mila uomini, dei quali quindici mila a cavallo, settanta pezzi di artiglieria
pesante e trecento cannoncini trasportabili a dorso di mulo; con stupore
si poteva poi notare che l'Imperatore, malgrado l'alleanza con il papa,
aveva consentito alla Francia di assoldare mercenari sulle sue terre,
circa seimila lanzi chiamati "Bande nere" dal colore delle armature
e delle bandiere. Quale direzione avrebbe preso il formidabile esercito?
Il Giura, con la conseguente invasione della Confederazione? La pianura
del Po? Se lo chiesero per primi e ansiosamente i capitani degli Svizzeri
che provvidero a rafforzare le loro cittadelle fortificate verso la Francia
e a guarnire i passi tra il Monte Bianco e gli sbocchi verso la pianura,
a Susa, Pinerolo, Saluzzo. Ma il Re li giocò abilmente: mandò
piccoli contingenti verso i passi più noti e che gli Svizzeri presidiavano,
mentre con il grosso dell'esercito in cinque giorni di marce forzate valicava
l'Argentera e giungeva a Cuneo, la sua artiglieria pesante veniva trasportata
in Italia attraverso il Monginevro, quindi Fenestrelle e Torino. I Francesi
erano di nuovo in Italia!.
Francesco aveva cercato di riconciliarsi con gli Svizzeri, mediante denaro
e pensioni, ma senza rinunciare a Milano né riconoscere il trattato
di Digione. Impossibile, dunque, un'intesa; inevitabile il ricorso alle
armi. I Confederati ebbero una volta di più l'impressione di essere
beffati e sprezzati dal Re di Francia, dalla malafede e dall'arroganza
dei Francesi; da ciò, l'odio contro quella nazione. Venezia era
considerata un altro covo di astuzie e di perfidia; l'Imperatore consentiva
al nemico di arruolare soldati tra i suoi uomini; Leone X si barcamenava
tra la Lega e Francesco, preoccupandosi piuttosto di ingrandire la potenza
della sua famiglia che non di dare direttive energiche all'esercito pontificio;
soltanto gli Spagnoli erano in armi, sul confine tra Milano e Venezia.
Gli Svizzeri si sentirono ancora una volta abbandonati. Per maggior disgrazia,
la discordia entrò anche nelle loro file; i Cantoni gottardisti
decisero di rinunciare al Piemonte e di ritirarsi nella Lombardia, alla
difesa di Milano, cioè di scegliere la tattica del combattimento
in aperta campagna, mentre i Bernesi volevano tenere le montagne, persuasi
che con minor numero di uomini si potesse produrre al nemico un guasto
maggiore; proponevano inoltre di mandare un contingente armato in Savoia,
prendendo così i Francesi alle spalle; avvertivano finalmente che,
in caso di rifiuto delle loro proposte, le truppe di Berna sarebbero rincasate
per la via più breve; proposte e propositi militarmente intelligenti,
politicamente disgraziati … Prevalse il parere dei Cantoni centrali,
i Bernesi dovettero rinunciare alle postazioni lungo i piedi delle Alpi,
il duca di Savoia cominciò a fare opera di mediazione per un incontro
bonale tra il Re e i capi elvetici. Gli Svizzeri si ritirarono su Vercelli,
poi su Novara e Milano; avevano rinunciato a difendere il Piemonte, avevano
mancato l'occasione di impedire, almeno, la congiunzione delle truppe,
della cavalleria e dell'artiglieria dei nemici; erano in più irritati
perché non arrivava il soldo della Lega, né le campagne
lombarde, stremate da tante guerre e devastazioni, potevano offrire occasione
a rinnovati saccheggi. Tra qualche episodio di ammutinamento, le truppe
dei Cantoni cittadini ripiegarono su Arona, lungo il Lago Maggiore, di
dove molti soldati, per mancanza di denaro e per la crescente miseria,
partirono verso i loro paesi d'origine. I Cantoni montanari, invece, si
stabilirono tra Milano, Varese e Sesto Calende.
Si diffondeva tra gli Elvetici un pericoloso sentimento di rassegnazione,
la convinzione dell'insuccesso e una sorta di represso furore; soltanto
Uri, Svitto e Glarona, più tardi anche Lucerna, sembravano decisi
a tutto, poi che rappresentavano le costanti di una tradizione gottardista;
il Re, informato regolarmente di tutto, intensificò le trattative
e potè finalmente incontrare, a Gallarate (8 e 9 settembre) i comandanti
elvetici, Ne uscì il nefasto "Trattato di Gallarate"
con il quale Francesco accettava di pagare le quattrocento mila corone
previste nell'armistizio di Digione, più altre trecento mila che
il Duca di Milano non era mai riuscito a mettere insieme, malgrado le
sue nuove imposte; gli Svizzeri, però, rinunciavano alle conquiste
fatte con la spedizione di Pavia e alla protezione di Massimiliano, al
quale il Re accordò un nuovo ducato in Francia e la mano di una
nobildonna francese. Peggio: i Bernesi e il loro partito si dissero pronti,
per altre trecento mila corone, a sgombrare anche le terre ticinesi, la
Val d'Ossola e la Valtellina, annullando così d'un tratto i risultati
secolari della politica transalpina dei Cantoni posti sotto il San Gottardo.
Gli antagonismi, egualmente secolari, tra città e montagne e la
natura dei patti di alleanza dei nuovi arrivati con i Cantoni forestali
spiegano ampiamente tanto la mentalità dei capi responsabili, quanto
le vergognose concessioni di Gallarate. Berna e le città sue amiche,
con il pretesto della validità del trattato gallaratese, rimpatriarono
i loro contingenti.
In Lombardia rimasero soltanto i gottardisti, più gli Zurigani
condotti dal fiero e incorruttibile Marco Röist, discesi in Italia
per ordine della Dieta; pieni di sdegno e di furore erano i rimasti, offesi
dalla condotta dei Bernesi, esasperati per l'abilità di Francesco
I°, memori più che mai di una politica transalpina che era
costata sacrifici immensi a tante generazioni della loro gente; per essi,
la Lombardia era conquista legittima, andava quindi difesa una volta ancora.
Ricevuti rinforzi, il 10 settembre entrarono in massa a Milano. Persino
entro la città divamparono una volta ancora le discordie a proposito
dell'opportunità di accettare o meno le decisioni di Gallarate;
fu il cardinale Schiner a comporre quelle ultime discordie; persuase Zurigani
e soldati di Zugo - già pronti a rimpatriare - a unirsi agli altri;
mise in opera la sua singolare eloquenza, ma anche la sua astuzia divulgando
notizie inesatte o esagerate; riuscì a far tacere i risentimenti
interni e le discordie fratricide, orientando rancore odio e furore in
una sola direzione, cioè contro i Francesi, e facendo un fascio
di ragioni politiche e religiose, di prestigio, di gloria e di potenza.
La battaglia che si preparava sarebbe stata così davvero una lotta
"nazionale": una parte della nazione degli Svizzeri contro la
schiacciante potenza della nazione dei Francesi. Non più, finalmente,
una zuffa di mercenari.
Francesco I° era giunto a sud-ovest di Milano, s'era accampato a Marignano,
dove provvedeva a fortificarsi con trincee, fossati e palizzate; era il
terreno, presso il villaggio di Zivido, sul quale nell'antichità
i Romani avevano costituito una loro colonia. Il Re disponeva di circa
quaranta mila uomini, più altri venti mila che tenevano i territori
occupati, di una cavalleria mobilissima e di una potente artiglieria;
attendeva inoltre, di giorno in giorno, l'arrivo degli alleati veneziani.
Gli Svizzeri erano venti mila, non potendo contare né sugli Spagnoli
né sulle truppe pontificie-fiorentine. Tre volte più numerosi
i nemici, dunque, e molto meglio armati; se la battaglia di Novara era
stata, si può ben dire, l'ultima del medio Evo, questa che s'annunciava
era la prima dell'età moderna, grazie appunto all'arma moderna
e decisiva: l'artiglieria.
Le prime scaramucce si ebbero il pomeriggio del 13 settembre, mentre i
capi militari stavano riuniti in consiglio nel Castello sforzesco; il
cuoiaio zurigano Rodolfo Rahn allarmò tutti con la notizia che
si stava già combattendo sotto le mura di Milano; Francesco aveva
mandato un corpo di cavalleria in esplorazione verso la città e
contro di esso s'erano subito avventati gli Svizzeri. All'allarme rispose
per primo il cardinale Schiner; sapeva che il miglior mezzo per trascinare
in combattimento gli esitanti - i capi di Zurigo e di Zugo, in particolare
- consisteva nello scatenare la battaglia: essa avrebbe travolto tutti
nel suo impeto fatale. Balzato a cavallo, il cardinale fu tra i primi
a slanciarsi fuori di Porta Romana - la sua porpora splendeva al sole
come una bandiera di sangue - tosto seguito dai Cantoni primitivi e dai
Glaronesi. Gli Svizzeri si accorsero immediatamente che si trattava in
fondo di uno scontro tra avamposti, i capitani pensarono che sarebbe stato
più prudente rinviare la lotta al mattino seguente, ma ormai la
febbre del combattimento li aveva travolti; chi poteva arrestare le schiere
che marciavano in avanti, verso Lodi, in assetto di battaglia, incalzate
dalla logica appassionata della morte?
L'esercito del Re stava su tre linee, tra Milano, Lodi e il corso della
Roggia Nuova che è un braccio naturale del Lambro; nel triangolo
tra la strada, Santa Brera e Zivido c'era anzitutto l'avanguardia, comandata
dal Connestabile di Borbone che l'aveva allineata verso Milano, a San
Giuliano; il corpo centrale o massa d'urto era intorno a Santa Brera agli
ordini dello stesso Re; la retroguardia, comandata dall'Alençon,
stava indietro, verso Marignano; per le fortificazioni e i trinceramenti
erano stati utilizzati numerosi corsi d'acqua, le paludi, i canali d'irrigazione.
Gli Svizzeri marciavano dunque in disordine sullo stradale di Lodi; nelle
vicinanze di San Donato, ripiegarono nella campagna; la sera s'avvicinava,
sarebbe stato conveniente rinviare lo scontro, ma come trattenere la massa
ormai lanciata? Di fronte al nemico, i Confederati si ordinarono finalmente
in tre corpi, tenendo al centro il borgomastro di Zurigo, Marco Röist,
che dirigeva il grosso delle truppe. Come sempre, prima d'ogni battaglia,
essi s'inginocchiarono per una breve preghiera; il condottiero Werner
Steiner di Zugo raccolse per tre volte una manciata di terra e ne asperse
i morituri con la formula tradizionale: "Nel nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo, questo sarà il nostro cimitero!";
risuonava intanto feroce il grido di guerra dei cantoni forestali, lugubremente
punteggiato dai corni delle Alpi e dalle cannonate dei Francesi, e in
quello spaventoso clamore i Confederati si buttarono sul nemico. L'artiglieria
apriva vuoti paurosi nelle loro file, ma essi ritennero, come a Novara,
di poter raggiungere i cannoni, impegnare il corpo a corpo e rivolgere
l'armi terribili contro l'avversario; tuttavia, le cose andarono diversamente,
poi che il Trivulzio e il duca di Borbone investirono di fianco gli Svizzeri
con la cavalleria pesante; questi ultimi riuscirono ancora una volta ad
averne ragione, sbaragliando così l'avanguardia francese e inseguendola.
Si giunse allora allo scontro tra le due masse centrali, in particolare
tra gli Svizzeri e i Lanzi tedeschi delle bande nere, che i Confederati
odiavano a morte (la cronaca riporta episodi inauditi di crudeltà,
da una parte e dall'altra, che conferma siffatto odio bestiale …);
la battaglia durò sino a notte, continuò furiosa al chiarore
della luna fin verso la mezzanotte, quando la fosca luna di settembre
si velò sulla carneficina. In complesso, la prima fase della lotta
era stata favorevole agli Svizzeri: l'avanguardia francese disfatta, il
grosso costretto ad indietreggiare, dodici pezzi d'artiglieria e molte
bandiere si trovavano ora nelle mani dei Confederati.
Il resto della notte fu insolitamente freddo; gli Svizzeri, che avevano
guadato fossati e canali e si erano inzuppati fino alle ossa, soffrivano
ancora più il freddo; inoltre, non avevano da mangiare, da bere,
non potevano accendere fuochi, rintracciare gli sbandati. Decisero di
rimanere sul campo di battaglia, malgrado tutto, per conservare i vantaggi
ottenuti nella lotta; i corni di Uri chiamavano spettrali nelle tenebre,
a rianimare i disperati e ad ammonire chi tentasse di prendere il largo.
Quando, il mattino del 14, la pugna venne ripresa, il Re aveva completamente
riordinato il suo esercito; richiamata l'avanguardia, l'aveva incorporata
nella massa centrale, schierando davanti artiglieria e fanti, e tenendo
indietro, nascosta, la cavalleria. Due, tre volte gli Svizzeri lanciati
all'assalto vennero respinti. Allora, un'ala dei Confederati tentò
la manovra di aggiramento che a Novara aveva determinato la vittoria;
essa, per altro, non riuscì, sventata dalla strategia del Re e
da un fatto nuovo e decisivo: tanto i montanari quanto Francesco I°
attendevano rinforzi; quelli dal Papa (truppe accampate a Piacenza), questo
dagli alleati veneziani; ora, il grido che dai confini della pianura annunciava
il sopraggiungere di nuove truppe era il temuto "San Marco!";
quella che stava disegnandosi ancora quale vittoria della Lega si trasformava
così in una dolorosa disfatta. Il generale veneziano Alviano teneva
il suo esercito a Lodi; nella notte, aveva ricevuto l'ordine di portarsi
avanti, e ora, sul primo mattino, sorretta la retroguardia francese che
stava sbandando, si gettava contro il fianco destro dei Confederati. Credettero
essi che l'intero esercito di Venezia ruinasse loro addosso, mentre in
realtà si trattava soltanto di alcuni reggimenti. Nello stesso
momento, il Re scopriva la cavalleria che avventava il centro della contesa;
essa aprì una breccia tra gli Svizzeri; gli alfieri di Uri, di
Svitto, dei valorosi Grigionesi caddero nel sangue e con essi cadde la
speranza di raddrizzare le sorti della lotta.
Venne allora decisa la ritirata su Milano. Quando i Francesi poterono
irrompere indisturbati, ai loro occhi si presentò uno spettacolo
miserando e nobile ad un tempo: tutti gli Svizzeri sfuggiti al fuoco delle
artiglierie e alle violenze dei lanzi s'erano disposti in quadrato; al
centro, tenevano i cannoni strappati dal fango delle paludi e che sospingevano
o trascinavano a forza di braccia; sulle spalle, portavano i loro feriti
e le bandiere, e così - composti, dignitosi, a passo lento, in
un ordine molto più efficace di quel che avessero il giorno innanzi
- marciavano verso settentrione. La leggenda vuole che Francesco I°,
preso da ammirazione, come già alcuni decenni prima il Delfino
di Francia a San Giacomo sulla Birsa, desse l'ordine di rispettare i valorosisconfitti
che si ritiravano; ma è leggenda: la verità è che
i vincitori si diedero immediatamente a braccare i dispersi che, raggiunti,
vennero trucidati senza pietà; trecento Zurigani che s'erano rifugiati
in un convento a San Giuliano vennero cannoneggiati e, poi che resistevano
anche alle artiglierie, bruciati insieme con l'edificio che li proteggeva.
I morti di Marignano non si poterono mai contare; le cifre tramandate
dalla tradizione sono discordi, ma si calcola il loro numero a circa dodici
mila, una cifra spaventosa; per decenni la pianura fu cosparsa di ossa.
Il grosso dei superstiti ripassò le Alpi; a Milano, rimasero poco
più di duemila uomini a presidio del Castello che resistette ancora
per un mese.
"Battaglia di giganti" definì Marignano il maresciallo
Trivulzio, aggiungendo che, a settant'anni d'età e dopo aver partecipato
a diciotto campagne, non poteva rammentare lotta più tremenda e
grandiosa di quel supremo duello con gli Svizzeri. Così nella tragedia
di Zivido si chiudeva tutto un periodo di espansione degli Svizzeri e
di lotte europee, e a un tempo un secolo della loro storia militare.
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