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Verri
Pietro
Di Francesco I
Re di Francia e il suo
governo nel Ducato di
Milano
dal capitolo XXII,
"Storia di Milano"
con la continuazione di Pietro
Custodi, volume secondo,
Ed. Sansoni, Firenze, 1963
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Il
buon re di Francia Francesco I radunò un'armata formidabile, e
si preparò a discendere egli stesso nell'Italia. Accrebbe sia a
millecinquecento il corpo delle sue lance, numero per que' tempi esorbitante;
allestì un imponente correde d'artiglieria; prese al suo stipendio
diecimila Lanschinetti, seimila fanti della Gheldria; radunò diecimila
Guasconi; in somma, formò una terribile armata con quindicimila
uomini d'armi, quarantamila fantaccini, tremila "pionieri" ossia
guastatori, e nell'esercito si contarono più di ottantamila persone.
Il contestabile di Bourbon aveva il comando della vanguardia. Il re s'era
riserbato il comando del corpo di battaglia; al duca d'Alencon aveva affidata
la retroguardia; Lautrec, Navarra, Gia Giacomo Trivulzi, la Palisse, Chabanne,
d'Aubigny, Bayard, d'Imbercourt, Montmorency, i più illustri che
militavano sotto le insegne di Francia, tutti gareggiavano per combattere
sotto del giovane e coraggioso loro re. Reso istrutto il duca di tal preparativi,
e di forze di gran lunga superiori alle sue, le quali senza dimora s'andavano
innoltrando, mentre egli aveva alle spalle i Veneziani, combinati a di
lui danno, affidò a Prospero Colonna dugento uomini d'armi e quarantamila
Svizzeri. Non conveniva aspettare nella pianura della Lombardia un esercito
fortissimo, animato dalla presenza del re; ed era sperabile l'arrestarlo
colle forze affidate al Colonna. Quindi, da saggio comandante, ei s'innoltrò
nelle difficili strette delle Alpi, nei contorni di Susa, ed ivi, impadronitosi
de' luoghi eminenti, si dispose a disputare con molto vantaggio il passo
all'armata nemica. Egli era acquartierato a Villafranca, vivendo sicuro
che i Francesi dovessero presentarsi a Susa. In fatti, due strade sole
erano conosciute allora onde passare dal Delfinato nell'Italia; una pel
monte di Ginevra, l'altra pel monte Cenis; e tutte e due si univano a
Susa. L'esercito francese, avvisato come in quelle angustie de' monti
l'aspettassero i nemici, disperando di superarli, era in procinto di abbandonare
l'impresa; ma il maresciallo Gian Giacomo Trivulzi, che già una
volta aveva conquistato alla Francia il Milanese, ebbe il merito di farglielo
acquistare anco in quella seconda occasione. Egli divisò una nuova
strada affatto impensata; e, coll'aiuto di alcuni cacciatori nazionali,
trovò il modo d'evitare il passo di Susa, e di guidare l'armata
per Saluzzo. Così entrò in Italia l'armata francese; e Prospero
Colonna, mal servito dagli esploratori, venne sorpreso e fatto prigioniere
da que' Francesi ch'egli supponeva di là dai monti. Così,
scesa nella pianura senza contrasto, si avvicinò l'armata francese
quasi alla vista di Milano. Il duca si ricoverò nel castello. La
città spedì i suoi deputati al re Francesco I, che gli accolse
umanamente. La città di Milano però non era disposta a ricevere
presidio; ed il maresciallo Trivulzio, avendo procurato impensatamente
d'introdurvene da Porta Ticinese, la plebe si pose in armi. Il duca, consigliato
da Girolamo Morone a giovarsi di quel movimento popolare, uscì
con parte del presidio per sostenere il popolo; per lo che, conoscendo
il Trivulzio che l'impresa non era tanto facile quanto l'aveva sperata,
con qualche uccisione de' suoi, si ritirò all'armata, ch'era accampata
a Boffalora. Il duca, per sempre più animar la plebe, fece proclamare
ch'egli voleva affidar le chiavi della città al suo popolo; che
in avvenire voleva rendere immuni i cittadini da ogni aggravio, e che
i pesi dello Stato dovevano portarli i ricchi e i nobili. Contemporaneamente
vennero cacciati i nobili dalle magistrature municipali, e collocare persone
le più accette alla plebe. L'odio ereditario contro de' nobili
si manifestò con eccessi d'ogni sorte. La plebe, sensibile alle
prepotenze ed al fasto orgoglioso de' magnati, non ebbe limite, dappoi
che venne sciolta ad agire, anzi animata. La rova, la vita de' nobili
non rimase più sicura; e il duca, arbitrariamente, esigeva esorbitanti
sussidi dai facoltosi, usando ridire spesse fiate: "Essere meglio
rovinare ch'essere rovinato". Così procurò egli d'impegnare
in sua difesa il numero maggiore e i più determinati sudditi, come
quelli che poco hanno da perdere.
Se dall'una parte questa imponente e vigorosa comparsa del re in Italia
cagionava molta inquietudine al partito dello Sforza, non lasciava dall'altra
di valutarsi il numero e la risolutezza degli Svizzeri, pronti a discendere,
e l'animo de' popolani del paese, che già s'era manifestato. Quindi
in Gallarate s'erano introdotti da ambe le parti discorsi d'accomodamento;
anzi erasi al punto di stabilire la pace, collo sborso di grosse pensioni
del re di Francia agli Svizzeri; e gli articoli principali, che già
sembravano accordati, erano: che il Milanese fosse del re di Francia;
che gli Svizzeri e i Grigioni restituissero al ducato le vali che avevano
occupate, cioè Lugano, Mendrisio, Locarno, Valtellina, ecc; che
il re assegnasse a Massimiliano Sforza il ducato di Nemours, ed un'annua
pensione di dodicimila franchi: che gli concedesse una principessa del
sangue reale in moglie, e gli desse la condotta di cinquanta lance al
servigio della Francia. Ma il cardinale di Sion trocò i discorsi
di accomodamento. Egli condusse in Milano, il giorno 10 di settembre del
1515, un corpo di Svizzeri numeroso. Cotesto cardinale compariva militarmente
"in habito de bruno seculare", come dice il Prato; e gli Svizzeri
vennero eccitati a combattere colla grandiosa promessa di ottocentomila
ducati d'oro, se vincevano. Della qual somma il ministro del re di Spagna,
residente a Milano, ne promise dugentomila a nome del suo monarca, ed
a nome del papa Leone X dugento altri mila ne furono promessi; cosicchè
al duca rimaneva il peso di quattrocentomila ducati. Gli Svizzeri, gloriosi
per la sconfitta data, due anni prima, a Novara ai Francesi sotto il comando
de la Tremouille, si consideravano "il terrore de' monarchi"
e tenevansi la vittoria sicura. Il re, vedendo inevitabile il tentar la
fortuna delle armi, avendo consumati i viveri de' contorni di Magenta,
Corbetta e Boffalora, marciò coll'armata, prima a Binasco, indi
passò a Pavia; finalmente pose, in settembre, il suo campo a Marignano.
Le scorrerie de' Francesi venivano sotto le mura della città, e,
non solamente da quella parte che risguardava la loro armata, ma persino
sulla strada di Monza, per lo che non eravi sicurezza nell'uscire da Milano.
Il giorno 14 di settembre 1515 divenne famoso nella storia per la "battaglia
di Marignano", da alcuni anche detta "di San Donato". Il
Prato ci racconta, come "venuta la chiarezza del dì, cominciarono
essi (Svizzeri) ad uscire per Porta Romana; et durò il loro passaggio
sino alla ventidue ore", il che prova il loro numero, "con animo
tale, che non pareva già che a guerra, ma più presto a certi
segni di vittoria andassero, et con essi era il cardinale". Il re
di Francia aveva seco lui sei ambasciatori svizzeri, i quali stavano trattando
della pace; per lo che l'attacco fu una vera sorpresa pei Francesi, e
potrebbe chiamarsi anche un'insidia oltraggiosa al gius delle genti, se
il corpo elvetico non fosse un aggregato di più distinte sovranità.
I cantoni di Uri, Swit e Underval, i quali privatamente possedevano Bellinzona
e le province acquistate sul ducato di Milano, dovevano preferire il rischio
della battaglia, anzi che cedere le loro conquiste: gli altri cantoni,
dai quali non si cercava nella pace sagrifizio alcuno, non avendo che
l'utilità delle pensioni dalla Francia promesse, dovevano preferire
la pace ai pericoli di una giornata. In fatti, gli Svizzeri di Berna,
Soletta e Basilea ricusarono di marciare contro de' Francesi; ma destramente
ingannati coll'avviso che la vittoria era già decisa pe' loro compatrioti,
essi, per non ritornare alle case loro colla vergogna di non aver partecipato
alla gloria degli altri, e per non perdere la porzion loro del bottino,
che già si tenevano sicuro, sull'esempio di quanto era loro toccato
a Novara col la Tremouille, si unirono e marciarono a San Donato. il progetto
era di vincere con impeto la prima resistenza de' Francesi: impadronirsi,
come era seguito a Novara, dell'artiglieria, ed adoperarla contro il re.
Guicciardini, Gaillard, Prato vanno concordi nella descrizione di quanto
v'è di essenziale in questo fatto, che decise totalmente in favore
del re, e che fu una delle più ostinate e sanguinose battaglie
che si sieno date. Cominciò la mischia il giorno 14 settembre,
due ore prima del tramontar del sole. Durò ferocemente sino alle
quattro ore della notte, non volendo nè cedere i Francesi, nè
ritirarsi gli Svizzeri. Le tenebre si accrebbero al segno, che fu indispensabile
il cessare, poichè non si distinguevano più gli amici dai
nemici. Il re profittò di quell'intervallo, spedì ordine
all'Alviano, comandante de' Veneti, acciocchè si presentasse tra
Milano e San Donato. Passò il re il rimanente della notte, animando
e disponendo i suoi, e giacque in riposo sopra un cannone. Al comparire
dell'aurora, più accaniti che mai, ritornarono al loro impeto gli
Svizzeri, ed i Francesi con fermezza lo sostennero e rispinsero. Si sparse
voce fra gli Svizzeri che l'Alviano marciava per coglierli alle spalle.
Laonde, spossati dalla enorme fatica, disperando di superare i Francesi
comandati dal loro re, vedendosi in pericolo di ritrovarsi fra due fuochi,
piegarono alla volta di Milano. "Affermava il consentimento comune",
dice il Guicciardini, "di tutti gli uomini, non essere stata per
moltissimi anni in Italia battaglia più feroce... Il re medesimo,
stato molte volte in pericolo, aveva a riconoscere la salute più
dalla virtù propria e dal caso, che dall'aiuto de' suoi... in maniera
che il Trivulzio, capitano che aveva vedute tante cose, affermava questa
essere stata battaglia, non di uomini, ma di giganti; e che diciotto battaglie
alle quali era intervenuto, erano state, a comparazione di questa, battaglie
fanciullesche. Vi si contarono morti sul campo più di quindicimila
Svizzeri e seimila Francesi. Il Trivulzi vi corse pericolo: ei s'era impegnato
fra le alabarde e le aste nemiche per salvare il suo alfiere, già
circondato dagli Svizzeri: ebbe ferito il cavallo, il suo elmo privato
de' pennacchi; era ridotto al punto di essere oppresso dal numero, se
non veniva un drappello de' suoi, che lo trasse a salvamento. Il re ebbe
il cavallo ferito, e nella persona ricevè molte contusioni, e vi
combattè come ogni altro soldato: vi si distinsero il contestabile
di Bourbon, il conte di San Pol. Il conte di Guise ricevette molte ferite;
rimase sul campo Francesco di Bourbon, fratello del contestabile, che
aveva il titolo di duca di Castelleraud; vi rimasero morti parimenti Bertrando
di Bourbon Carenci, un fratello del duca di Lorena e del conte di Guise,
il principe di Talmont, i conti di Sancerre, di Bussi, d'Amboise, di Roye
ed altri. Il cavaliere Bayard, quegli che aveva e meritava il titolo di
"Cavaliere senza tema e senza macchia", in quella memorabile
azione fece prodigi di valore, per modo che il re di Francia medesimo,
Francesco I, dopo ottenuta la vittoria, volle ivi sul campo essere creato
cavaliere per mano del valoroso Bayard. Gli Svizzeri mal conci sopravvisuti
a quella carneficina ritornarono a Milano, ed io li rappresenterò
colle volgari, ma ingenue parole adoperate da un merciaio che allora aveva
bottega aperta in Milano, e si chiamava Gian Marco Burigozzo: "Tanto
che fu la rotta a questi poveri Sviceri, et se comenzorono a voltare,
et vennero a Milano quelli pochi che erano avanzati, et tutti avevano
bagnate le gambe, et questo era perchè il signor Giovan Jacopo,
come stuto capitano, venendo li Sviceri in campo su un certo prato, et
lui li dette l'acqua, per modo che la fu una gran ruina a quelli poveri
Sviceri, tanto che a Milano non se ne vedeva altro se non ammalati et
homeni maltrattati, in modo che pareva che costoro fussero stati in campo
dieci anni, tutti polverenti dal mezzo in suxo, et dal mezzo in giuxo
bagnati, tanto che li homeni de Milano, vedendo tanta desgrazia, tutti
si miseno sulle porte ovver botteghe, chi con pane, et chi con vino, a
letificar li cori di questi poveri homini, et questo facevano a honor
di Dio, et per tutto questo dì non cesorno de venire poveri Sviceri,
tutti malsani, et il puù sano durava fatica a star su in piedi".
(*)
Dopo la battaglia di Marignano il duca si ricoverò nel castello
di Milano con bastente presidio. Il cardinale di Sion prese seco il duca
di Bari Francesco, e lo condusse alla corte imperiale, dove era stato
educato, riserbandolo a tempi migliori pel caso che Massimiliano rimanesse
in potere de' Francesi, che il cardinale odiava irreconciliabilmente.
Gli avanzi di marignano si ricoverarono nelle loro montagne svizzere,
e così il Milanese rimase sgrombrato ed aperto al dominio del re,
tranne i castelli di Milano e di cremona. Si vociferava non per tanto
della disposizione di cinquanta altri mila Svizzeri a venire in soccorso
del duca. Era recente la memoria di quanto aveva saputo fare Giulio II;
e non era da fidarsi di Leone X, che gli era succeduto nel sommo sacerdozio.
Un regolare assedio al castello di Milano, ben provveduto di viveri e
di munizioni, portava molti mesi di tempo, ne' quali i maneggi della politica
potevano annientare i vantaggi dal valore e dal sangue francese ottenuti
nella recente segnalatissima vittoria. Voleva la ragione di Stato che
il re offerisse a Massimiliano Sforza i compensi che egli avesse saputo
chiedere, purchè cedesse il castello di Milano, rinunziasse alle
pretensioni sul ducato, e riconoscesse il re Francesco per duca di Milano.
Girolamo Morone, che stavasene nel castello col duca, fu mediatore di
quest'accordo. Massimiliano Sforza rinunciò al re di Francia il
ducato di Milano, gli consegnò il castello, passò a terminar
da privato i suoi giorni nella Francia con trentaseimila scudi di pensione,
che assegnoli il re, il quale oltre a ciò s'obbligò di pagargli
i debiti. Al Morone il re promise di farlo senatore e regio auditore.
il giorno 8 di ottobre del 1515 venne ceduto il castello ai Francesi;
e non erano ancora compiuti due i anni da che n'erano usciti. E così
terminò la sovranità di Massimiliano Sforza, il quale per
poco più di tre anni rappresentò la figura dell'ottavo duca
di Milano; principe che venne definito assai bene dal Gaillard nella vita
di Francesco I re di Francia colle seguenti parole: "à juger
de lui par sa conduite, il paroit que c'étoit un prince foible,
fait pour étre gouvernè. Ni politique, ni belliqueux, on
ne l'avoit vu ni préparer sa defense par les intrigues du cabinet,
ni commander ler armées qi combattoient pour lui. Il sembloit que
la querelle du Milanès lui fut étrangère. Mais il
eut du moins le mérite d'avoir renoncé de lui meme à
un rang au quel il n'étoit point prope, et de ne l'avoir jamais
regretté dans la suite". Egli passò nella Francia,
dove sette anni prima era morto Lodovico suo padre; vi campò quindici
anni, essendo poi morto a Parigi il giono 10 di giugno del 1530. Il re
Francesco I volle mantener la promessa data per Girolamo Morone, il quale
forse s'aspettava d'essere fatto senatore del senato di Milano: ma il
re temeva il talento di quest'uomo, e non doveva dimenticare che Francesco
Sforza era salvo: perciò lo destinò a risiedere nel parlamento
della provincia di Bresse, la quale forma una porzione del regno di Francia
fra Borgogna, la Franca Contea, la Savoia e il Viennese: alla quale onorevole
destinazione mostrò di ubbidire il Moroni, e fingendo d'incamminarsi
al nuovo suo destino, strada facendo, sviò e ricoverossi nel Modanese.
(*)
Nel tempo stesso in cui si assicurò il re di massimiliano Sforza,
e s'impadronì delle fortezze del Milanese, mosse colla maggiore
sollecitudine ai suoi maneggi per concertarsi col papa Leone X, detto
prima il cardinal Giovanni de' Medici, che combattè a Ravenna contro
de' Francesi. Sommamente stava a cuore al pontefice l'assicurare alla
sua casa in Firenze quella sovranità che effettivamente godeva,
sebbene sotto apparenza di repubblica, e sempre per se medesima precaria.
Il re si fece garante di mantenere il governo di Firenze nel sistema in
cui si trovava. La città di Bologna, e per la sua grandezza e per
la situazione vantaggiosa, premeva al papa di possederla assai più
di quello che dovessero interessarlo Parma e Piacenza. I Francesi avevano
mantenuti i Bentivogli nella signoria di quella città, anche cogli
ultimi fatti del duca di Nemours, che ne aveva discacciati i pontificii,
i quali l'assediavano. Il re si mostrò disposto ad abbandonare
i Bentivogli, e guarentire Bologna alla Santa Sede. In compenso il papa
doveva riconoscere il re come sovrano del ducato di Milano, e restituirgli
Parma e Piacenza, come due città dipendenti dal ducato. Così
venne concertato, ed il trattato venne sottoscritto in Vitebo il giorno
13 ottobre 1515.
Quantunque i Francesi possedessero Milano sino dal giormno 17 settembre,
il re, sin che non ebbe la dedizione del castello, volle risiedere a Pavia,
ed i n Milano dimorava il contestabile di Bourbon, luogotenente e governatore
a nome del re. Resosi poi padrone del castello, il re fece la sua solenne
entrata in Milano il giorno 11 d'ottobre 1515. Lo corteggiavano il duca
di Savoia, il duca di Lorena, il marchese di Monferrato, il marchese di
Saluzzo, e varii altri signori tutti partecipi della battaglia di San
Donato. Alla porta Ticinese gli si presentarono i delegati della città,
i quali gli offersero lo scettro ducale, la spada e le chiavi della città.
Il re era a cavallo, vestito di ferro, con un manto di velluto celeste
a gigli ricamati d'oro. Avanti se gli portava una spada sguainata; dodici
gentiluomini milanesi lo fiancheggiavano. Dugento gentiluomini francesi,
coperti di ferro e con ricchissimi manti, venivangli in seguito. poi mille
fantaccini tedeschi armati, condotti dai loro capitani riccamente ornati,
venivangli in seguito. Chiudeva la marcia un corpo di cavalleria. Giunti
alla notizia dell'imperator massimiliano questi avvenimenti, egli spedì
a Milano un suo ambasciatore al re di Francia per interpellarlo con quale
titolo egli occupasse il ducato di Milano. Il re indicogli la sua spada;
giacchè non essendo egli discendente dell'ultimo investito, cioè
Lodovico XII, non aveva alcun titolo da addurre fuori che l'essere discendente
ei pure della Valentina, madre del di lui avo Giovanni conte d'Angouleme;
il quale titolo non era adatto ai principii dell'impero, nè alla
leggi del feudo instituito da Venceslao, siccome transitorio ne' soli
discendenti maschi. Se l'interpellazione fatta da Cesare aveva l'apparenza
feciale spedito a intimare la guerra, la risposta del re aveva il significato
della disposizione sua per difendersi. Il re, per rassodare sempre più
la buona corrispondenza col pontefice, concertò d'abboccarsi con
esso a Bologna; partì da Milano, dopo di esservi dimorato cinquantatrè
giorni, il 3 del mese di dicembre, e il giorno 14 dello stesso mese e
dello stesso anno 1515, in Bologna, col papa Leone X si stabilì
il concordato famoso, per cui, abolita nella Francia la prammatica sanzione,
venne spogliato il corpo della chiesa Gallicana de' suoi immemorabili
possessi, e si regalarono il re e il papa vicendevolmente la roba altrui.
Non mai per addietro gli ecclesiastici francesi avevano pagate a Roma
le annate, ed il re donò al papa il diritto di farsele pagare.
le nomine ed elezioni de' vescovadi erano di competenza dei risapettivi
capitoli delle cattedrali per diritto stabilito dai canoni conciliari;
il il papa invece donò al re di Francia queste nomine. Inutilmente
i parlamentari del regno fecero le loro rismostranze; inutilmente le fece
il clero gallicano in corpo; poichè si volle ad ogni modo che il
concordato fosse posto in esecuzione (1516). Dopo ciò, ne' primi
giorni di gennaio il re partì dall'Italia, dove lasciava per la
forza delle sue armi, per la fama della sua vittoria, e per i negoziati
col papa e co' Veneziani una dominazione apparentemente sicura e tranquilla.
Lasciò il duca di Bourbon suo governatore e luogotenente in Milano.
Frattanto però l'ostinatissimo cardinal di Sion moveva ogni mezzo
alla corte imperiale per determinare Cesare a scendere nell'Italia. Varii
Milanesi, avversi alla dominazione francese, dimoravano negli Svizzeri,
e procuravano di promuovere gl'interessi della casa Sforza, tuttora intatti
nella persona del duca di Bari Francesco, il quale non aveva abdicata,
come aveva fatto il maggior fratello Massimiliano, la ragione sua alla
successione nel ducato di Milano. La fiera risposta data dal re alla intimazione
imperiale, sembrava che obbligasse quell'augusto a prendere il partito
suggerito dal cardinale. Così appunto seguì, e nel 1516
l'imperatore Massimiliano scese in persona dal Trentino alla testa di
sedicimila Lanschinetti, quattordicimila Svizzeri, e un nerbo poderoso
di cavalleria. Il maresciallo di Lautrec abbandonò Brescia, ch'ei
teneva bloccata. I Francesi, vedendo l'imperatore che si accostava per
impadronirsi di Milano, nè potendo difendere i borghi, presero
il partito terribile di porvi il fuoco. Furono inceneriti i sobborghi
di Porta Romana, Porta Tosa e Porta Orientale. L'imperatore, il giorno
3 di aprile1516, minacciò un assalto a Milano, ne intimò
la resa, vantossi di voler rinnovare la memoria di Federico Barbarossa;
ma il contestabile di Bourbon prese sì bene le sue misure temporeggiando,
che l'imperatore, mancando di denaro, gli Svizzeri minacciarono di abbandonarlo.
Il maresciallo Gian Giacomo Trivulzio, informato di ciò e della
inquietudine che ne provava l'imperatore, scrisse al colonnello Staffer,
comandante degli Svizzeri imperiali, una lettera da cui risultava un concerto
di tradire Massimiliano Cesare, e consegnarlo al contestabile; e questa
carta venne confidata ad uno il quale appostamente si lasciò prendere.
Poichè ebbe letto un tal foglio, l'imperatore talmente gli prestò
fede, che, sotto apparenza di andare a prendere denaro a Trento, se ne
partì; e la sua armata, mancando di comandante, e, ciò che
per essa era ancora peggio, di denaro, si sbandò a saccheggiare
Lodi e Sant'Angelo, e da' Francesi venne poi discacciata. Così
terminò con poca gloria una impresa incominciata in guisa di doversene
aspettare tutt'altro fine. Brescia fu da' Francesi tolta agl'Imperiali.
I Francesi operavano come ausiliari de' Veneziani; ma non ci fu modo di
prendere Verona, difesa valorosamente da Marc'Antonio Colonna, degno nipote
di Prospero. Lautrec la assediava. I Veneziani, collo sborso di centomila
scudi, ottennero dall'imperatore, che abbandonasse Verona; e fra l'imperatore,
i Veneziani e i Francesi venne segnata la pace. Così i Veneziani
riacquistarono la terra-ferma. Si fece la pace fra il re e gli Svizzeri.
Si accordò un perdono generale, acciocchè tutt'i Milanesi
che avevano preso partito contro della Francia, ed erano esuli e confiscati,
ritornassero pacificamente ne' loro diritti nella patria. Si impose una
tassa straordinaria per pagare le somme promesse agli Svizzeri; ed il
maresciallo Trivulzio obbligava i cittadini ricchi ad imprestar denaro
al regio erario, carcerandoli se ricusavano. Tali conseguenze portava
la mancanza di un catastro, sul quale ripartire i carichi delle terre.
I nostri vecchi credevano che quella oscurità fosse un bene; quasi
che meglio fosse un tributo arbitrariamente estorto colla forza militare,
esercitata odiosamente sopra alcuni cittadini più accreditati,
anzi che un proporzionato riparto sulle facoltà di ciscuno; e,
quasi che la influenza che la difficoltà di riscuoterlo può
avere onde evitarlo, sia paragonabile col disordine di tal forma di riscossione,
inevitabile quando le urgenze pubbliche lo esigono.
Il principio del regno di Francesco I, poi che fu in pace, promise un
ridente avvenire ai Milanesi; e il duca di Bourbon, generoso e magnanimo
principe, governatore e luogotenente del re, procurò di rendersi
affezionati gli animi di questi nuovi sudditi, e far loro dimenticare
con un felice governo e i suoi naturali principi, e i mali sofferti. Il
senato di Milano, "che tanto a dire quanto esso re" (dice il
Prato), ordinò che venissero stimati i danni sofferti da' cittadini
per le case incenerite ne' borghi, e sulla relazione degl'ingegneri commise
ai tesorieri del re di risarcirli. ma le angustie dell'erario non permisero
che interamente fossero indennizzati. In oltre il contestabile di Bourbon
donò alla città il dazio della macina, che si valutava allora
diecinovemila ducati di annua entrata; e donò pure il dazio del
vino minuto, d'annua rendita di settemila ducati. Nacque disparere fra
i ventiquattro rettori della città. Alcuni proposero di abolire
questi due aggravii, perchè venisse sollevato il popolo, e non
si accumulasse denaro nella cassa pubblica, d'onde sovente, col titolo
di prestito, i rettori medesimi lo sviavano per non più restituirlo,
abolendo così il nome di un molesto aggravio. Tal proposizione
era di pochi; i più si opponevano; la disputa era impegnata, ostentando
l'uno e l'altro partito il nome di patria e di pubblico bene, siccome
è l'uso. Nè accadde allora ciò che pure succede,
cioè che, mentre due partiti cozzano e guerreggiano, entri una
più scaltra, o più potente persona di mezzo ad usurparsi
la cosa disputata. Venne ordine in nome del re alla città di non
disporre di tal regalie, intendendo il sovrano di conservare intiera la
corona ducale.
In vece però di que' due tributi il re assegnò diecimila
ducati annui alla città, da convertirsi in opere di pubblico beneficio.
L'ordine del re è in data del 7 luglio 1516, e contiene: "Christianissimus
rex, animo revolvens fidelitatem et integritatem quam cives Mediolanenses
erga Suam Majestatem habuerunt, et damna intolerabilia, quae passi fuerent,
libere praedicte civitati donat atque concedit summam ducatorum decem
milium annui et perpetui redditus, per manus receptoris civium recipiendos
a mercaturae datiariis, quae quidem summa in commodum et utilitatem praedictae
civitatis tantummodo et non aliter convertatur" (*).
Poi passa a stabilire che la metà di questa somma s'impieghi ogni
anno per formare un canale sotto la direzione del vicario e dei Dodici
di Provvisione; ducento annui ducati si lasciano da distribuire all'arbitrio
del vicario e Dodici suddetti; e quattromila e ottocento si distribuiranno
chiamando col vicario e Dodici anche quattro dottori di collegio de' fisici,
quattro negozianti e quattro nobili deputati dello spedale. Ogni anno
il ricettore renderà i suoi conti al magistrato camerale, chiamandovi
il vicario e i fiscali. Era vicario di provvisone Bernardo Crivelli. Gli
architetti idraulici che s'impiegarono, furono Bartolomeo della Valle
e Benedetto Missaglia. Si cercò di fare un canale che ci rendesse
comoda la navigazione col lago di Como. Primieramente si esaminò
la valle di Malgrate, e risultò impossibile, perchè conveniva
scavare un canale profondo trenta braccia per più d'un miglio,
e ciò sotto il fondo del lago di Civate; e protraendo il canale
sino al lago di Pusiano per imboccare il Lambro, che ne esce, conveniva
sprofondare il lambro cento braccia e dieci once. Perciò abbandonarono
quella idea, e si rivolsero ad esaminare se meglio convenisse cominciare
il canale sotto Airuno, e trovando che ivi dovevasi sprofondare centosessantadue
braccia per attraversare quella costa, ne lasciarono pure anche tale idea.
(1517). Poi, l'anno seguente, esso Missaglia con alcuni ingegneri, Giovanni
Simone della Porta e Giovanni Balestrieri si posero ad osservare la Valle
del Seveso, che comincia a Cavallasca, e passa per Lentate, e viene a
Milano. Trovarono che per essa non era sperabile di condurre un canale
per l'angustia e le alte rive che in più luoghi s'incontrano; e
ciò quando anche vi fosse stato modo d'introdurvi le acque del
lago di Como, cosa assai difficile e pel livello, e per le montagne frapposte;
ed anche questo pensiero per tai motivi fu giudicato inutile. Visitarono
una valle presso Chiasso, e non trovarono modo di aprirvi un emissario
che ricevesse le acque del lago di Como. A Como presso a Sant'Agostino
si argomentarono di potervi aprire un emissario, imboccando la valle del
Fiume Aperto e dell'Acqua Negra, ma calcolate le molte emergenti difficoltà,
senza fare alcune livellazione, riconobbero ineseguibile anche questo
progetto. tentarono poscia se da Porlezza a Menaggio si potessero unire
i laghi di Lugano e di Como; la distanza è di sei miglia, ma conveniva
discendere dal primo cento braccia per entrare nel lago di Como, e lo
trovarono impossibile. la Tresa, emissario del lago di Lugano, che sfogasi
nel lago Maggiore, fu trovata povera di acque e di caduta impetuosa, e
giudicata perciò indomabile. Esaminarono a Porto ed a Cò
di Lago se potessero estraersi le acque ed incanalarle per la Lura verso
Seregno, d'indi poi a Milano; e ciò pure non trovarono espediente.
Ritornarono a tentare di fare un emissario nell'Adda, visitarono se mai
per Oggionno e Valmadrera si potesse incanalare l'acqua verso Rovagnate,
ovvero nel Lambro; ma senza profitto, nè speranza, rinunciarono
a quel partito.
Ripigliarono l'esame sotto Airuno, e passata la costa, alta, come dissi,
braccia centosessantadue, videro che si sarebbe potuto condurre un canale
per Cernusco Lombardone, indi Usmate, poi ad Arcore: ma tutto con sommo
dispendio. Questo fu il progresso per cui si determinarono il Missaglia
e il della Valle a progettare per rendere navigabile l'Adda da Brivio
a Trezzo. la città supplicò, perchè s'impiegassero
i cinquemila zecchini nel rendere navigabile l'Adda, invece di scavare
di nuovo un emissario, e da ciò si prometteva abbondanza di calce,
legna e carbone. Era riserbata quest'opera ai nostri giorni, mercè
la protezione ed attività del passato governo.
Queste beneficenze del re animarono la città di Milano a spedire
a Parigi alcuni deputati con una supplica al re in cui proposero alcuni
stabilimenti. Essa distesamente vien riferita nel manosritto del Prato.
io ne esporrò quanto vi è di più importante. Si chiedeva
dalla città di Milano che il governatore e luogotenente non avesse
nè direttamente nè indirettamente ingeranza alcuna nelle
cose di giustizia tanto civile quanto criminale; che nessuna autorità
egli avesse negli affari delle regalie, e nemmeno facoltà di proclamare
editti; ciò che il re non volleaccordare. Accordò egli bensì
che nessun comandante militare potesse nelle città di presidio
o nei castelli esercitare giurisdizione sopra i cittadini. Si conosce
da quanto trovasi in qualle supplica, che di que' giorni i questori, i
quali dovevano giudicare delle questioni fra gl'impresari e il popolo,
non erano di rado soci secreti degl'impresari medesimi; onde essendo costoro
ad un tempo giudici e parte, non vi era più modo agli oppressi
di trovare giustizia; su di che la città implorò la sovrana
provvidenza. Essi poi, come ministri camerali, all'occasione di confische
(le quali in quella età di frequente cambiamento di dominazione,
col pretesto di fellonia non erano rare) occupavano indistintamente tutto
il patrimonio e del reo e de' consanguinei che vivessero indivisi con
lui, e quindi gl'innocenti si trovavano costretti a dispendiosissime liti,
dalle quali erano prima rovinati che ottenessero la loro porzione devastata.
Fa poi ribrezzo maggiore il conoscere da quella supplica quanto ingiusta
e crudele fosse la procedura criminale esercitata in quell'epoca da coloro
che avevano una carica di capitano di giustizia. Questo supremo giudice,
assistito dal suo vicario e da quattro fiscali, procedeva "servato
et non servato jure comuni". Vi fosse o non vi fosse il corpo del
delitto, questo non arrestava la procedura. Il primo atto del processo
era citare formalmente il tal cittadino, acciocchè si presentasse
all'esame. In questo esame non di rado veniva il cittadino posto ai tormenti,
e quindi "cum terrori sit omnibus officium illud" (dice il Prato),
moltissimi chiamati all'esame, per sottrarsi fuggivano, e poi si condannavano
come contumaci anche gl'innocenti. Da questi aggravi chiesero i deputati
che venisse liberata in avvenire la città; ed il re comandò
al senato di proporre i rimedii. Se colle livellazioni fatte sulla pianura
del ducato, alcuni uomini di quel secolo acquistarono diritto alla stima
e riconoscenza de' loro nipoiti e successori, i togati di quei tempi cominciarono
a farci conoscere che quella loro arte cui definiscono: "ars boni
et aequi, justi atque injusti scientia", è un'arte affatto
staccata dal senso morale. Da quella carta istessa impariamo che allora
più non si univa il consiglio dei novecento, ma era di centocinquanta
il consiglio generale della città di Milano; e que' centocinquanta
nobili rappresentavano veramente la loro patria, poichè da quella
erano eletti a parlare e ad agire per essa.
Il metodo della elezione era questo. Ogni parrocchia si radunava e nominava
due sindaci. Tutti i sindaci poi di ogni porta si radunavano ed eleggevano
quattro. Questi quattro eletti da ciascuna delle sei porte, ossia de'
sei rioni o quartieri della città, si univano e formavano i ventiquattro
elettori. Da questi poi niminavansi venticinque nobili per ciascuna porta,
i quali formavano il consiglio della città, acui era concessaa
la nomina del vicario di provvisione, scelto dal collegio de' giureconsulti,
la nomina de' due assessori, scelti pure dal collegio medesimo, e quella
degli altri nobili per le giudicature della città e pel tribunale
di provvisione. Essi tuttavia formavano la terna, e la scelta facevasi
dal luogotenente e governatore dello Stato. Ma quella forma di elezione
terminò due anni dopo; e per un fatto dispotico del governatore
Lautrec, vennero da esso lui nominati sessanta nobili, ai quali commise
di rappresentare il consiglio generale della città (nota. Questo
accadde per disposizione data il giorno primo di luglio del 1518, come
scorgersi alla p.30 della relazione MS. che l'erudito ed esatto abate
Lualdi, prefetto dell'Archivio della città, ha presentata l'anno
1784 al Consiglio Generale); e così continuarono dappoi i successori
nel governo a nominare, senza opera della città, a misura che vacavano;
ed il ceto dei sessanta decurioni (l'adunanza de' quali dicevasi la "Cameretta"),
durò fino all'epoca della repubbica Cisalpina.
La plebe era superstiziosa e violenta oltre modo; e ne fecero la prova
i monaci di San Simpliciano, i quali nell'anno 1517, avendo scoperte alcune
urne, ed esposti i corpi creduti di San Simpliciano, di San Martino, di
San Siro ed altri santi; ed essendo per disgrazia caduta in que' dì
una grandine dalla quale vennero flagellate e devastate le nostre campagne;
col modo di ragionar volgare attribuendosi il fenomeno fisico allo sdegno
dei santi, i quali bramassero riposo ed oscurità, anzi che luce
e movimento; e traducendosi i Benedettini siccome rei di sacrilegio e
di pubblica sciagura; non furono essi più sicuri non solamente
nelle piazze e per le vie della città, ma nemmeno nel loro monastero;
e dice il Prato ch'essi furono "sì sconciamente battuti, che
tal fu di loro, che vi lasciò non solamente la cappa, ma et la
forma di quella". Nè la supposta empietà di cavare
dalla tomba i santi bastava a spiegare allora la cagione della grandine.
La inquisizione non volle starsene oziosa; volle trovar delle streghe
colpevoli di quel turbine, e volendolo efficacemente, se ne trovano sempre.
Alcune infelici donnicciole avevano dei segni, quai fossero non lo sappiamo;
bastarono però a farle splendidamente gettar nel fuoco. Si ascolti
il Prato: "anche da li segni le quali, judicate dalla inquisizione
per strie, furono in quelli medesimi dì a Ornago et a Lampugnano
sul monte di Brianza a gran splendore arse". Convien dire che anche
nel ceto ecclesiastico allora l'ignoranza fosse grande; e merita d'essere
riferito a tal proposito un fatto singolare che ci vien raccontato e dal
Prato e dal Burigozzo. Un uomo sen venne a Milano grande, sottilissimo
per l'estrema magrezza, che, andando scalzo, vestito di rozzo panno, a
capo scoperto, non portando camicia, vivea con pane di miglio, erbaggi
ed acqua, e dormiva sulla nuda terra. Costui, presentatosi alla curi arcivescovile,
chiese il permesso di predicare; ma siccome egli era laico e non fregiato
di alcun ordine ecclesiastico, gli venne ciò negato. Malgrado ciò
egli cominciò nel Duomo a parlare al popolo, e continuò
per un mese a farlo ogni giorno "con tanta grazia di lingua, che
tutto Milano vi concorreva". Egli prese un tal ascendente col favore
del popolo, che nessuno poteva fargli contrasto; e nella chiesa delDuomo
disponeva come se ne avesse titolo. Le costui prediche versavano singolarmente
nel rimproverare la corruttela degli ecclesiastici; i quali, indifferenti
per la religione, col di lei manto altro non bramavano se non la ricchezza,
autorità e comodi; non mai sazi di onori, di latifondi, di voluttà,
nimici delle sante regole de' loro istitutori, alieni dalla carità,
dallo studio de' libri sacri, dalla cura del bene altrui, dalla pazienza,
dalla umiltà, dai travagli; cose tutte che pure sono di obbligo
dello stato a cui sono sublimati; e quindi in vece di animare i laici
alla virtù col loro esempio, sono la cagione della corruttela universale
de' costumi. Così con veemente eloquenza questo uomo laico cercava
di scuotere gli ecclesiastici. I preti non si mossero; ma i frati non
furono tanto pazienti; e que' di Sant'Angelo l'accusarono come sedizioso,
fautore segreto de' nimici del re. Egli, interrogato dal maresciallo Trivulzi
e dal presidente del senato, fu trovato un uomo semplice, pio, ed affatto
diverso da quello che era stato rappresentato. Insensibilmente poi questo
amor popolare, prodotto dalla eloquenza e dalla austerità, sempre
imponente, della vita, svanì; ed il romito dopo sei mesi, senza
alcun romore, se ne partì. Era costui dell'età di trent'anni,
Toscano; aveva nome Girolamo; dotto assai nelle sacre pagine. Tutto ciò
il Prato. Di costui il Burigozzo dice che era di Siena, di bella persona,
e nobile: "era vestito de panno tanè, haveva le brazza discoperte
et le gambe nude senza niente in testa, con la barba lunga, ed haveva
dissopra un certo mantelletto a modo de sancto Giovanni battista".
Se mi si permette una conghiettura, parmi che questa straordinaria missione
fosse un avviso salutare degl'imminenti torbidi luttuosi che nacquero
pochi mesi dopo nell Germania contro degli ecclesiastici; e che riuscirono,
come ognun sa, all'infausto dissidio dei protestanti e dei pretesi riformati.
Il contestabile duca di Bourbo, governatore e luogotenente del re, venne
richiamato per uno di quegl'intrighi, i quali non son rari nelle corti,
quando il monarca non giudichi co' suoi principii, ma si lasci indurre
ad abbracciare i partiti che destramente gl'insinuano le persone che se
gli accostano più da vicino. La duchessa di Angouleme aveva molto
ascendente sull'animo del re suo figlio. Non minor potere aveva nel cuore
di quel giovine e vivace sovrano la contessa di Chateau-Briant, che era
nel fiore dell'età, il fiore della bellezza e della grazia; ed
era amata dal re. la ducehssa favoriva il duca di Bourbon, senza ch'egli
se ne avvedesse, per inclinazione naturale; la contessa bramava che si
desse a lautrec, di lei fratello germano, il comando nell'Italia delle
armi francesi. Perciò nel 1517 egli venne a Milano governatore,
e fu il settimo. Odetto di Foix, signore di lautrec, maresciallo di Francia,
era cugino e compagno d'armi del celebre Gastone di Foix. Alla battaglia
di Ravenna egli fu de' pochi che non l'abbandonò, quando, per uno
sconsigliato ardimento, si scagliò incontro alla sua morte. Si
battè, lo difese quanto un uomo solo lo poteva contro una folla
di armati. lautrec gridava agli Spagnuoli, mentre combatteva, avvisandoli
che Gastone era il fratello della regina loro. ferito egli pure in più
guise, giacque creduto morto a canto a gastone. Riconosciuto poi, ed assistito,
ripigliò Lautrec il suo vigore, e sotto del contestabile continuò
a dar saggi del suo valor militare. Le ferite che lautrec aveva ricevute
sul viso nella battaglia di Ravenna, l'avevano reso di aspetto truce e
deforme; nè il di lui carattere contrastava colla fisionomia. (1518)
Lautrec, governatore di Milano, mal sofferiva il maresciallo Trivulzio,
il quale viveva con una magnificenza reale, ed era più considerato
nella città, che non lo fosse Lautrec. Trivulzio era maresciallo,
era stato governatore, aveva acquistato alla Francia il Milanese, viveva
indipendente. Il perchè venne accusato e indicato per sospetto,
per essere egli il capo della potente fazione de' Guelfi, e per essersi
fatto ascrivere alla naturalizzazione elvetica, e perchè il di
lui nipote serviva i Veneti. Queste accuse del Lautrec vennero nell'animo
del re malignamente rinforzate dalla contessa di Chateau-Briant, la favorita
di quel monarca. Trivulzio, franco e sensibile, informato dell'attentato,
al momento partì; e quantunque avesse ottant'anni, nel cuore dell'inverno,
superate le Alpi, si presentò alla corte di Francia, dove però
non potè avere udienza dal re. Questo rispettabile vecchio si fè
condurre in luogo per cui doveva passare il monarca; e poichè fu
alla distanza di essere ascoltato, disse: "Sire, degnatevi di accordare
un momento d'udienza ad un uomo che s'è trovato in diciotto battaglie
al servigio vostro e dei vostri antenati". Il re, sorpreso, lo guarda,
lo ravvisa, e passa oltre senza far motto. Tale fu la mercede di quarant'anni
di servigi resi alla Francia. Trivulzio si ammalò gravemente. Il
re gli fece fare delle scuse; ed il Trivulzio gli rispose che era sensibile
alla bontà del re, ma che lo era stato pure ai rigori, ed il rimedio
era tardo. Frattanto il lautrec profittò dell'assenza del Trivulzio
per arrestare a Vigevano la vedova ed i figli del conte di Musocco, nuora
e nipoti del Trivulzio. Il maresciallo fu sepolto a Bourg de Chartres,
sotto Montlehrey, dove aveva trovata la corte, e dove morì. Burigozzo
dice ch'ei morì il giorno 4 di dicembre del 1518. Nel vestibolo
di San Nazaro Maggiore della nostra città avvi un tempio di assai
grandiosa e nobile architettura, intorno al cui architrave veggonsi collocate
in alto le tombe della famiglia Trivulzio; il qual edifizio credesi fatto
fabbricare dal maresciallo, la tomba del quale sta nel mezzo, colle due
sue mogli poste ai lati; e sta scolpito: "Qui nunquam quievit hic
quiescit. tace" ("Chi mai non riposò qui riposa. taci").
Della sconoscenza ed ingratitudine del re Francesco I ne scrive anche
il Prato: "havendo non una, ma due et tre volte", dic'egòi,
"con tanta fatica et arte in bona parte dato il stato di Milano a
Francesi, ed hora ne ha pagato di sì meritevole guiderdone".
Il Trivulzio fu un gran soldato, un signore magnifico, e d'animo reale.
L'ambizione sua però fu rivolta più a soggiogare i nemici
viventi, ed a vendicarsene, che a procacciarsi una fama generosa presso
la posterità. Ei non temette la voce imparziale della storia. E'
tristo quel popolo che è dominato da un ambizioso che non la teme!
Trivulzio, con la sua ambizione, rovinò la patria, scaccionne i
naturali suoi duchi, e la immerse nelle miserie che l'afflissero per più
di un secolo. Egli non ha diritto veruno alla nostra riconoscenza.
Dell'atrocità di que' tempi, e degli effetti dell'ignoranza e delle
torture può esserne pure chiara testimonianza il fatto orribile
di Isabella da lampugnano, la quale, il giorno 22 di luglio del 1519,
sulla piazza del castello, fu arruotata viva ed abbruciata. Si credette
che per sola crudeltà ella colle lusinghe si facesse venir in casa
sua i bambini, e loro togliendo il sangue, gli salasse e divorasse. Si
asserì che la cosa venisse a sapersi, perchè una gatta di
lei fu osservata avere in bocca la mano d'un bambino: "Fu subito
detenuta", dice il Prato, "et stata per alcun tempo perseverante
ne' tormenti horribili, negando sempre il vero, finalmente confessò
il tutto". La logica non permette di credere che si commettano siffatti
orrori per sola crudeltà e senza un fine. La cognizione del cuore
umano nemmeno consente di crederne preferibilmente capace una donna, più
sensibile alla compassione che non è l'uomo. La ragione e la sperienza
ci dimostrano che questa è una prova di più, che coll'uso
dei tormenti horribili finalmente si costringe un innocente ad accusarsi
di qualunque più chimerico delitto. Ci accaderà di trattare
più diffusamente, mi lusingo, in avanti, proseguendo la storia.
La condizione de' Milanesi era assai infelice sotto il duro e dispotico
governo del maresciallo Lautrec: aggravii indiscreti, indiscretamente
percepiti: patiboli, confische, proscrizioni; quest'era l'arte colla quale
colui governava. Io non riferirò quanto ne scrivevano gl'Italiani
di quel tempo, che potrebbe forse anco credersi dettato dallo spirito
di partito nazionale. Brantome così parla nella vita di Lautrec:
"On dit qu'avant qu'il fust chessè de Milan, venoient au roy
plusieurs nouvelles et plaintes de luy, et qu'il estoit trop sévère
et mal propre pour un tel gouvernement... mais pour gouverner un état
il n'y estoit bon. Madame de Chateaubriant, soeur de mons. de Lautrec....
en rebatit tous le coups, et le remettoit tousjours en grace". E
lo storico Gaillard, nella vita di Francesco I re di Francia, dice: "le
maréchal de Lautrec gouvernoit depuis long temps le Milanés
avec une rigueur bien contraire à la clemence de son maitre. les
proscriptions avoient depeuplé Milan. les bannis étoient
en si grand nombre qu'on les voit jouer un role dan l'histoire, se rassembler,
former des entreprises, et susciter beaucoup d'affaires auz Francois.
On remarqua que la plus part de ces bannis étoient les plus riches
citoyens du Milanés". Fu ben diverso il regno di Lodovico
XII da quello di Francesco I, non già per cattiva indole di quest'ultimo,
ma perchè, sotto il nome suo spensieratamente lasciava in balia
d'un favorito il destino de' sudditi. In quel torno morì il nostro
celebre Bernardino Coiro, d'anni sessanta, e fu l'anno 1519. Quattro anni
prima lo storico Tristano Calco lo avea preceduto.
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