Introduzione
Una stradetta discreta fra i filari di pioppi e le rogge che la seguono con le marcite da una parte e dall'altra: essa percorre in tutta lunghezza quella fascia di terra che sta fra il Lambro e la grande via Lodigiana, da Triulzio a Monticello, poi a Carpianello e Zivido fino a Santa Brera ed ancora oltre, alla Rocca dei Marchesi Brivio, che da un bastione guarda sulla Vettabbia in faccia a Melegnano.
Il suo antico tracciato è tuttora individuabile da Triulzio verso Morsenchio; di qui con la strada di Paullo si raggiungeva porta Tosa, ovvero, svoltando dietro la chiesetta di Santa Maria di Castegnedo e proseguendo per la Boffalora e la cascina Paradisa, si entrava in città da porta Romana.
Su questa strada, sul finire del secolo XV, si potevano incontrare gli equipaggi del principe Gian Giacomo Trivulzio o quelli dei signori di Brivio i quali venivano a visitare le loro terre, quando l'alterna fortuna delle armi e della lotta per il possesso del ducato di Milano, permetteva di dimorare nella loro città.
Leggo fra le ingiallite pagine di una mia "Historia d'Italia" di Messer Francesco Guicciardini "de la passata di Re Francesco I in Italia e della rotta degli Svizzeri a Marignano o a San Donato"; scriveva il Re in una lunga lettera alla madre dopo la battaglia che le bande degli Svizzeri si avanzavano con inaudito furore verso lo schieramento francese da "l'autre avenue"; l'altra strada, e cioè non la via romana, è questa nostra viottola così stretta che se incontri un carro di fieno bisogna saltar nel fosso per lasciarlo passare; lungo questa stradetta antica che tocca tanti cascinali, ed ognuno ha la chiesetta abbandonata che si affaccia fra il verde, è avvenuta una delle più celebri battaglie della storia.
Qualche foglia gialla comincia di settembre a staccarsi da quei pioppi e semina la strada, gialla come le pagine di quel mio libro stampato quattrocento anni fa "in Venetia appresso Nicolò Bevilacqua". Le foglie dei pioppi sono le prime a spuntare di primavera e le prime a cadere sui bordi dei fossi; l'acqua si dirama a pettine selle marcite e le porta con sè e le convoglia nei colatori che poi alimentano altri fossi maestri e bagnano altri prati più a valle.
Il camparo, col badile in ispalla e le brache rimboccate al ginocchio, con lo stesso metodico e monotono procedere come da secoli, alza ed abbassa le paratoie per far fluire sull'erba l'acqua limpida gorgogliante.
Forse fu una muta intesa o parola d'ordine ai campari, che quella mattina del 14 settembre 1515, giorno di Santa Croce, essendo ancora incerte le sorti della grande battaglia che si combatteva sui campi di Marignano, di San Giuliano e San Donato, determinò nel Trivulzio, a compimento di quel suo capolavoro di strategia, la decisione di far allagare i prati su cui gli Svizzeri si facevano macellare con sadica pervicacia; forse furono le acque della Spazzola e della roggia Nuova che decisero le sorti francesi.
Non si è mai potuto comprendere come l'armata veneziana, sollecitata ripetutamente ad intervenire in aiuto alle forze del Re di Francia abbia tardato di tanto, chè lo squadrone di lancieri del duce d'Alviano giunse sul mezzogiorno a risolvere un episodio marginale non a decidere di una battaglia già vinta; forse nei piani del Trivulzio le truppe alleate avrebbero dovuto seguire il corso del Lambro lungo la sua riva sinistra e passarlo a guado tra Bolgiano e Monticello per presentarsi a San Donato e prendere gli Svizzeri alle spalle (Verri).
Cerco invano le tracce di una cappella che Francesco I fece edificare a perpetua memoria dell'avvenimento; la mano dell'uomo e del tempo cancellano dal terreno i segni della guerra, la terra sconvolta si appiana e l'erba cresce. Nuova primavera, nuovi pioppi che germogliano e le acque più limpide che mai scorrono ordinate nei fossi delle marcite disposti a pettine. Solo nelle pagine gialle del mio libro stampato a Venezia quattrocento anni fa rivedo le fasi di uno dei più famosi avvenimenti della storia, come mi balza agli occhi dai parlanti bassorilievi di cui Filiberto Delorme ed il Primaticcio decorarono la tomba del Re nella abbazia di Saint Dénis.
Questo Re giovane di ventun anni era circondato da una gioventù ardente di fare la guerra "ce que c'est le plus exercice qui peut avoir un prince", e si coronò di una aureola di eroismo per il fatto d'arme da lui personalmente condotto, e legò il nome di Marignano alla sua ambizione ed alla sua vanità finchè visse.
Questa pagina di storia militare che ha reso noto per secoli in tutta Europa il piccolo borgo affacciato alla riva sinistra del Lambro, rappresenta la fine di un'epoca ed il principio di una nuova, la luce crepuscolare del Medioevo coi suoi tornei e le sue giostre care alla cavalleria ed il sorgere di un'èra vivificata dal rigoglio della cultura e delle più belle manifestazioni dell'arte, e fra le conquiste politiche, economiche e sociali, l'origine dei grandi stati sulle rovine del feudalesimo.
Il soffio di italianità ed indipendenza che avevano ispirato la politica e l'ambizione di Francesco Sforza e di Lodovico il Moro mal si attagliavano al tentativo dei forti e valorosi soldati Svizzeri che venivano in aiuto alla decadente dinastia; la ritirata di Marignano fu per loro un grave ammonimento ed anzichè ritentare la discesa delle valli, costituì, secolare forza di quel popolo, l'edeale della neutralità.
Un alcunchè di anacronistico e di incerto balza alla nostra mente quando scorrendo le storie di Francia si parla di battaglia di Marignano, mentre i nostri storici ufficiali dell'epoca ed i cronisti milanesi senza distinzione la chiamano battaglia di San Donato. A completare poi il già inspiegabile contrasto, va precisato che il fatto d'arme si svolse in prevalenza e senza argomento alcuno di discussione, in territorio di San Giuliano, con qualche sconfinamento nelle altre località.
La spiegazione più evidente e più logica ce la dà il De Rosmini nella storia di Milano: "questa battaglia di San Donato, o come più comunemente fu appellata di Marignano per la maggior importanza del luogo nelle vicinanze del quale fu data".
Siedo davanti al tavolo di lavoro del marchese don Annibale Brivio Sforza, che mi usa la somma cortesia ma anche non dissimula il segreto compiacimento di sfogliare davanti a me una numerosa serie di quaderni in cui ha raccolto tutte le notizie storiche della Sua antica casata; gli episodi più salienti del fatto d'arme sono avvenuti tutti là sulle campagne di Zivido, intorno a quel castello che era la villeggiatura di donna Lucrezia Visconti vedova di Alessandro Brivio capitano dell'esercito ducale.
Il colto ed austero gentiluomo sa tutto di quel celebre avvenimento storico che si svolse sulle terre le quali sono ora come allora di proprietà della sua famiglia; le preziose notizie escono dalla sua bocca come alcuni decenni or sono uscirono dai documenti d'archivio che il marchese Giacomo suo padre mise a disposizione del cappellano di Zivido, perchè ne scrivesse la storia, e si recò appositamente a Parigi a fargli trascrivere un raro volumetto dell'epoca, che colà si conserva nella Biblioteca Nazionale (1).
Seduto in una sala della sontuosa dimora patrizia, la mia curiosità si appaga di tante cose belle, dalla vista dell'effige scarna ed il robone di velluto damascato di Francesco Brivio tesoriere ducale, la quale riproduce fedelmente la celebre tela del Poldi Pezzoli, ad una mirabile figura di donna giacente di scuola Leonardesca; essa non è dissimile dai numerosi ritratti di quella Cecilia Gallerani che tutti gli storici vogliono essere stata l'amante di Lodovico il Moro.
Qui si respira un po' d'aria della estinta dinastia dei duchi di Milano, dacchè Francesco II Sforza tenne a battesimo un rampollo della linea principale dei signori di Brivio e gli impose il nome Sforza, rimasto da allora unito al casato dei discendenti; qui dai preziosi segreti dell'archivio di famiglia vengono in luce le qualità illustri, i singolar servigi, le persecuzioni e l'esilio di questi come di tanti altri signori milanesi che rimasero sempre fedeli ai loro naturali principi, e che piace ricordare nella rievocazione di un grande fatto d'arme che si combattè sulle loro terre.
La pubblicazione del cappellano Raffaele Inganni, che evidentemente fu ispirata ed appoggiata da casa Brivio, non sfuggì agli studiosi dell'argomento, fra cui il De Laurière della Società Archeologica di Francia, la quale annoverò il sacerdote di Zivido fra i suoi soci e lo insignì di una grande medaglia commemorativa appositamente per lui coniata. Tale saggio storico è assai diligente e completo quanto oramai introvabile, per cui ho ritenuto utile per la storia locale di Melegnano, San Giuliano e San Donato riesumare quelle antiche vicende.
Nulla di nuovo c'è da aggiungere a quel volumetto la cui traccia ho seguito passo passo, anzi talora usando le stesse parole; solo ho voluto soffermarmi su particolari di pura curiosità locale che per ovvie ragioni vengono omessi dalla storia ufficiale; ho inteso far rivivere per un istante le figure di tanti personaggi che hanno consacrato alla storia le loro singolari imprese, nel quadro dei lori vizi e delle loro virtù, dei costumi del tempo e degli avvenimenti di cui hanno avuto parte o che addirittura da essi sono stati determinati.
E' pertanto senza alcune pretesa letteraria ma per puro diletto che licenzio questo modesto volume, ricorrendo quattro secoli e mezzo dal celebre fatto d'arme; luci ed ombre del passato seguono il mio cammino su questa stradetta discreta fra gli stessi campi sempre fiorenti e l'ondeggiare dei filari di pioppi che lasciano cadere le foglie morte sui bordi delle rogge più che mai limpide e silenziose.
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