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La Vergine, coronata, siede solenne su di un semplice sedile, reso più
comodo da un alto cuscino; sopra la veste indossa un lungo mantello che
sale a coprirle il capo, fermato sul petto da una spilla a forma di losanga.
Volgendo lo sguardo alla sua destra, sostiene con le mani il figlio benedicente,
ritto, il torso nudo, coperto solo di un lenzuolino. Alle spalle della
Madre e del Bambino una coppia di angioletti svolge una cortina.
Il grande altorilievo è complessivamente in discreto stato di conservazione,
nonostante diverse scheggiature e alcune più importanti lacune:
si devono in particolare a un rifacimento (si direbbe cinque-seicentesco)
la testa dell'Angelo di sinistra così come quella del piccolo Gesù,
che oggi guarda verso lo spettatore, ma che doveva in origine volgersi,
quale la madre, verso destra; ancora è malamente rifatta in stucco
la punta del naso di Maria.
Nonostante la qualità non comune che la contraddistingue, la scultura
di Riozzo è rimasta finora relegata ai margini degli studi storico-artistici.
Venne esposta tra il 1979 e il 1980 a Palazzo Reale, in occasione della
mostra "Sette secoli di storia e arte: dal pane vino e zoccoli
all'assistenza di diritto", e la brevissima scheda redatta allora
per il catalogo da Bruno Viviano costituisce a tutt'oggi l'unica voce
bibliografica a stampa che la riguardi. Ne veniva sottolineata l'analogia
stilistica con i rilievi raffiguranti episodi della vita della Vergine
che cingono l'altare di Carpiano (poco a sud di Milano) e se ne proponeva
una datazione al XV secolo. Nell'introduzione premessa a quel catalogo
Carlo Bertelli, allora soprintendente a Brera, la includeva tra le "rarissime"
opere che in quell'esposizione valicavano un "interesse del tutto
locale", accennando alla tradizione che collegherebbe la nostra scultura
alla fondazione della Certosa di Pavia.
In verità, il marmo dell'oratorio di S. Rocco trova le sue radici
stilistiche in un tratto della storia della scultura lombarda che sta
tutto a monte della fondazione della Certosa, avvenuta nel 1396 per volontà
di Gian Galeazzo Visconti, quando a fare tendenza in campo artistico erano
le guizzanti silhouettes dei personaggi miniati da Giovannino de' Grassi
sugli uffizioli e i libri d'ore della corte o i profili spigolosi e taglienti,
le espressioni ammiccanti e accesissime delle figure ricavate nel marmo
da Giacomo da Campione: i due maestri che da alcuni anni dirigevano i
lavori di costruzione e decorazione del Duomo di Milano e che in più
di un'occasione furono convocati anche a Pavia per dare pareri e consigli.
La solenne monumentalità, lo sguardo severo, quasi altero, la solida,
maestosa volumetria del corpo, l'intaglio sodo e piluto del marmo, i sottosquadri
netti accomunano invece il gruppo della Madonna col Bambino di Riozzo
a una serie di sculture, omogenee tra loro, che Costantino Baroni ha riunito
attorno alla Madonna e due santi che trovano posto nella lunetta sopra
la porta centrale dell'abbazia di Viboldone e al sarcofago di Salvarino
Aliprandi nella chiesa di S. Marco a Milano. Opere, queste, realizzate
con ogni probabilità nel corso del quinto decennio del Trecento,
se si considera come i lavori di costruzione dell'abbazia di Viboldone,
voluti dal preposto Guglielmo da Villa, si siano conclusi nel 1348 (lo
attesta una lapide
in facciata), mentre Salvarino Aliprandi morì, secondo l'iscrizione
che corre lungo il bordo inferiore del sarcofago, nel 1344.
Al loro autore, che dovremmo abituarci a chiamare, dall'opera sua più
caratteristica, Maestro delle sculture di Viboldone (perifrasi un po'
faticosa, che evita però la confusione con l'altrettanto anonimo
e coevo pittore, anch'egli responsabile di una lunetta, ma questa volta
ad affresco, nel tiburio della medesima chiesa di Viboldone), il Baroni
riferiva un nutrito catalogo: la Vergine col figlio nel santuario della
Madonna delle Grazie a Castelletto, presso Abbiategrasso, una piccola
Madonna stante sull'acquasantiera dell'abbazia di Morimondo, un Sant'Agostino
in trono sulla facciata della omonima chiesa di Bergamo, un San Giacomo
a tutto tondo e un rilievo con Cristo in pietà al Castello Sforzesco,
tre figure di santi sulla facciata della chiesa di S. Marco, la Madonna
col Bambino in trono all'interno di S. Nicolao e il gruppo costituito
dalla Madonna col Bambino e tre santi che vigila sulla Porta Nuova di
Milano.
Un raggruppamento sostanzialmente accolto dalla critica successiva (che
espunge i santi sulla facciata di S. Marco) in cui mi pare non si amalgami
del tutto la sola scultura bergamasca (non sconosco però il marmo
del santuario di Castelletto).
E', questo maestro delle sculture di Viboldone, una personalità
chiave nella vicenda della statuaria milanese d'età gotica, che
trova posto, nella sequenza cronologica, tra la stagione segnata dalla
presenza del pisano Giovanni di Balduccio (leader incontrastato della
scultura lombarda all'epoca di Azzone Visconti) e quella che vide, a partire
dalla metà del secolo, l'affermazione perentoria di Bonino da Campione,
destinato a divenire il nuovo artefice di fiducia dei signori dello Stato
milanese.
Tra questi due poli non v'è dubbio che il maestro anonimo trovi
maggiori consonanze con Bonino, del quale lo si vorrebbe credere il maestro,
tante e tali sono le affinità tra il suo eloquio chiaro ma solenne,
scandito ma di tono dichiaratamente cortese, e quello dell'artista originario
di Campione. Si potrebbe quasi cedere alla tentazione d'immaginare che
il Maestro delle sculture di Viboldone altri non sia in realtà
che Bonino stesso nella sua fase più antica, se non fosse per il
tono più solenne, la monumentalità più perentoria,
l'assenza di quell'affabile grazia sentimentale che segna fin dalle sue
prime opere certe la maniera del'autore del sepolcro di Stefano e Valentina
Visconti in S. Eustorgio o della commossa Crocifissione di S. Nazaro a
Milano.
La questione, cruciale al fine di una più aderente e articolata
interpretazione della scultura medievale lombarda, merita un esame che
non è dato condurre nel poco spazio di una scheda, esame che comporterà
la considerazione di bellissimi rilievi e statue che sembrano quasi costituire
l'anello di congiunzione tra i due maestri, quali lo stesso sepolcro Aliprandi
in S. Marco e le misconosciute ma assai importanti statue di apostoli
finite, chissà per quali vie, sul tiburio del Duomo milanese (pubblicate
da Bernstein nel 1969 con l'erronea attribuzione ai veneziani e tardogotici
Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne). In ogni caso, un confronto fotografico
tra la Madonna assisa di Riozzo e quella che troneggia sopra la Porta
Nuova basta, credo, a togliere ogni dubbio circa la pertinenza di entrambe
al catalogo del medesimo artefice, il Maestro delle sculture di Viboldone,
appunto. L'assoluta identità iconografica trova puntuale riscontro
nell'intima analogia dei volumi massicci, geometrici, in quei graffi che
solcano risolutamente il marmo a dare maggior vigore alle pieghe dei panni
in corrispondenza del gomito o sulla coscia sinistra di maria, in quelle
falde di tessuto piatte, pacate, simmetriche in cui si ripiega la veste
della Vergine scivolando dal sedile o il padiglione che gli angeli reggono
alle sue spalle. Ritornano identici perfino dettagli quali le rozze colonnette
che sostengono il trono minimalista, scevro d'ornamenti. Il raffronto
tra i due altorilievi induce a pensare che, nonostante l'intervento del
restauratore che girò, rifacendola, la testa del bimbo a interloquire
con lo spettatore, anche il pezzo di Riozzo prevedesse in origine altre
figure (una teoria di santi, i Magi, un committente orante), come avviene
sulla Porta Nuova, a giustificare il deciso sbilanciamento verso sinistra
della madre e del figlio, che a man manca rivolgono lo sguardo, i gesti,
ruotano il corpo. Integrato dunque necessariamente con altri personaggi,
il gruppo apparirà a maggior ragione fuori scala all'interno del
piccolo oratorio di S. Rocco, così come fuor di misura per quella
sede non può non risultare l'impegno, artistico innanzitutto ma
anche economico, che un'opera siffatta sottintende. E d'altra parte le
vistose rotture del marmo sono di per sè indizio di traslocchi
traumatici: ricerche che non ho avuto ancora modo di fare nell'Archivio
II.PP.A.B. potranno forse gettare luce sulle modalità e i tempi
che l'han fatto approdare a Riozzo.
Mi limiterò per ora a notare che l'identità iconografica
e tipologia (sia tratta di due sculture ad altissimo rilievo, per di più
di dimensioni simili) con il gruppo milanese fa sorgere il sospetto che
entrambi nascessero per un'analoga destinazione, il tabernacolo di una
delle sei principali porte urbiche di cui Azzone Visconti (al potere tra
1328 e 1339) promosse il completamento architettonico e la decorazione
scultorea. Come ha ben chiarito Maria Teresa Fiorio, l'incarico della
campagna decorativa fu affidata in un primo tempo a Giovanni di Balduccio,
che realizzò (con l'aiuto dell'operosa bottega) le figure delle
porte Ticinese, Comacina e Orientale. A un certo punto gli succedette
nell'impresa (o forse solo lo affiancò) il Maestro della sculture
di Viboldone, responsabile della Porta Nuova. Poco sappiamo infine della
decorazione gotica di Porta Romana, smantellata alla fine del Settecento,
e ancor meno per quel che riguarda la Porta Vercellina, che fu invece
demolita, come attesta Paolo Morigia nella Historia dell'antichità
di Milano, già nel Cinquecento, quando la realizzazione, sulla
metà di quel secolo, dei nuovi bastioni voluti da Ferrante Gonzaga
innescava il progressivo degrado delle mura e delle porte medievali, via
via sacrificate alle esigenze della città in corso di trasformazione.
Proprio sulla porta che conduceva a Vercelli è stato supposto troneggiasse
in origine la Madonna col Bambino oggi nella chiesa di S. Nicolao, opera,
lo abbiamo visto, del Maestro delle sculture di Viboldone.
In assenza di riscontri oggettivi in proposito, verrebbe la tentazione
di lasciare aperta l'ipotesi, alternativa, che quella posizione toccasse
invece in antico alla Vergine di Riozzo, che con l'icona di Porta Nuova
condivide non solo l'impaginazione quasi in profilo, ma anche la tecnica
d'esecuzione (l'altorilievo) e l'idea degli angeli reggi cortina.
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da VIVEREINSIEME
bimestrale d'informazione
delle II.PP.A.B.
ex E.C.A. di Milano
anno 2 - n.1
gennaio - febbraio 2002
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