|
E' inevitabile che l'area del corso meridionale del Lambro, sviluppandosi
fra Milano - citt� peraltro in indiscussa decadenza all'epoca del dominio
longobardo - e Pavia, abbia restituito e continui a restituire testimonianze,
magari non cruciali ma comunque interessanti, che richiamano questa pagina
di Medioevo profondo. Non si tratta inoltre di una rivelazione conclusa:
ne fa fede ad esempio il ritrovamento, nel 1999, di una tomba longobarda,
per quanto spoglia di corredo funebre, lungo gli argini dell'Adda a Spino
(Cr). Pur tenendo sempre a mente quello che Tacito già nel I secolo diceva
di questo popolo, "longobardos paucitas nobilitat" (lo scarso
numero nobilita i longobardi ) (1) - senza figurarsi quindi il loro marchio
ad ogni più sospinto - si pu� affermare che anche la nostra storia locale
non � del tutto avara di informazioni su questi antichi ed almeno inizialmente
infausti avi calati dal nord.
Ci sono innanzitutto, com'� ovvio, le testimonianze materiali, le quali,
esclusi gli oggetti d'arte decorativa rinvenuti nelle sepolture, comprendono
alcuni manufatti convenzionalmente datati ai secoli VI - VIII: la scultura
nota come il "Capitello del Monasterolo", ad esempio, rinvenuta
a Zeloforamagno, o la lunetta murata nella porta E della chiesa di S.Maria
in Prato, frazione di San Zenone al Lambro, anche se per quest'ultima,
in passato, sono state proposte datazioni parziali che arrivano sino all'et�
celtica.
Sempre sorprendente, inoltre, � il lascito linguistico dei "secoli
bui", ma non vuoti, dell'alto Medioevo. I termini superstiti non
sono moltissimi, si stima duecento in tutto, ma cognomi vivi tuttora come
Gazzola, G(C)astaldi, Stucchi, Bre(ai)da, riecheggiano l'antico linguaggio
germanico sovrappostosi al latino, anche se ci� non significa che chi
li porta abbia un legame diretto ed ininterrotto con eventi cos� remoti.
Anche la toponomastica offre le sue rivelazioni.
L'indimenticato Giuseppe Gerosa Brichetto, ad esempio, in uno studio pubblicato
nell'ormai lontano 1973 (2), invitava a puntare l'attenzione sul costrutto
"Zelofora(o)magno". Se la prima parte del composto � chiara,
� l'agellus" romano (piccola propriet� rurale), la seconda sembra
proprio unire due fra i più noti vocaboli del mondo romano-barbarico:
"fara" e "arimmanni(orum)". La voce "fara",
con significato di "spedizione/migrazione" e successivamente
stanziamento di popoli non romanzi, � presente e studiata in un numero
considerevole di toponimi italiani, ma quella riconosciuta in "Zeloforamagno"
rappresenterebbe l'unico caso relativamente vicino a noi. L'arimann�a,
invece, istituzione del germanesimo primitivo - ammesso che sia davvero
un'eredit� longobarda, il che qualcuno dubita (3) - � costituita da un
presidio di soldati, exercitales, i quali come compenso del loro servizio
militare ricevono una terra. Non c'� in questo nulla più del principio
generale del feudalesimo, ma il carattere singolare dell'arimann�a consisterebbe
nel fatto che questi soldati - agricoltori non entrano mai in rapporto
vassallatico, perch� il garante della loro libert� � il re e solo il re.
L'arimann�a, dunque, introdotta in Italia dai Longobardi o dai Franchi
- questo � il punto- rappresenterebbe l'ammirevole conservazione di un
senso minimale dello Stato, della publica auctoritas, nel mezzo del galoppante
costume feudale, che impone di trovare protezione all'ombra di un potente
locale piuttosto che nell'evanescente autorit� regia.
L'etimologia germanica � accreditata anche per Cassignanica, frazione
di Rodano, che svilupperebbe, come diverse localit� italiane, la diffusa
radice "g(k)ahagi" - latinizzata in Gaium e resa successivamente
in volgare italiano da "g�ggio" o "gaz(z)�lo". Il
termine g�ggio, nell'economia curtense, indica "terreno, bosco, pascolo
e altro riservato, bandito"; ove tale voce toponimica ricorre, dunque,
� il ricordo della legislazione romano-barbarica sui "terreni riservati",
non aperti allo sfruttamento spontaneo della comunit�. Pi� controverso
il caso di Vizzolo Predabissi, che potrebbe bens� far propria la medesima
radice (Vico-gaz�lo, il villaggio del "bosco chiuso"), ma anche
rappresentare una semplice forma diminutiva della dizione "vicus",
già latina e quindi attestata nell'italiano antico (4).
Sempre il Gerosa, nel testo citato, avendo a disposizione un gran numero
di fonti originali e seguendo i classici studi di Gian Piero Bognetti,
ripercorreva la lunga vicenda delle arimann�e in terra ambrosiana. Egli
mostrava come il concetto di "legge longobarda" e la qualifica
di "arimanno" (soldato, ovvero uomo libero per eccellenza) attribuita
a se stessi da parecchi personaggi, persistano ben oltre la conquista
carolingia del nord Italia. Lo studio, in particolare, si soffermava sulle
vicessitudini delle terre arimanniche possedute nella pieve di Mezzate
dai Menclozi e dalla cosiddetta "Adelman�a di San Giorgio",
famiglie preminenti di antica origine longobarda. La storia delle arimann�e
in territorio milanese ha anche dei risvolti, a modo loro, divertenti.
Nel 1158, ad esempio, all'approssimarsi a Milano del terribile Barbarossa,
il quale rivendicava all'autorit� imperiale "marche, contee, regimi
comunali, consulatus, zecche, fodro, imposte indirette, arimannie, acque
pubbliche, piscatico, monopoli, testatico" (5) si verificano tra
gli arimanni improvvisi traffici giuridici, vendite di propriet� "a
scatola cinese", diremmo noi, oppure generosi lasciti "pro remedio
animae" a chiese e monasteri (salvo conservare per se stessi, finch�
si vive, l'usufrutto di tali doni). Il tutto per occultare agli occhi
dell'imperatore svevo l'antica origine fiscale, quindi pubblica, dei benefici
goduti per secoli dagli arimanni.
Vi sono, infine, anche alcune pagine di "grande storia" dei
Longobardi che ci potrebbero riguardare da vicino. Cesare Amelli ed altri
autori di storia locale, ad esempio (6) hanno sempre ricordato, al momento
di raccogliere quel poco che si sa sulla Bassa nei primi secoli della
nostra era, che alcuni episodi narrati da Gregorio di Tours nella "Historia
Francorum" e da Paolo Diacono nella "Historia Langobardorum"
ebbero con ogni probabilit� per teatro la valle meridionale del Lambro,
dove pare che allora come in ogni altra epoca si allevassero soprattutto
maiali (il magister porcarius � figura economica chiave di quel mondo,
ricordata nell'Editto di Rotari). Si tratta degli scontri fra eserciti
franchi e longobardi, accesisi fra il 583 ed il 590 d.c.; i due popoli
si combatterono in "luoghi di pianura" fra Milano e Pavia, dove
si era rifugiato Autari, monarca successore di Alboino.
Note
1) Cornelio Tacito, De origine et situ germanorum, 40. La stima
dell'intera popolazione dell'Impero Romano d'Occidente all'apogeo (sec.II
d.c., dai censimenti romani) � di 50/60 milioni di abitanti, valore circolarmente
raggiunto solo nel XIV secolo. Per i secoli successivi c'� concordia nel
ritenere che la popolazione europea, compresi i territori al di fuori
del mondo romano - barbarico, si sia almeno dimezzata, toccando forse
i 20 milioni nell'VIII secolo (Pinto 1996). Per i barbari si sono ipotizzate
le seguenti cifre: Ostrogoti 100.000 (Schmidt 1934), Longobardi 300.000,
ma per questi ultimi ci sono versioni che scendono sino a 100.000 fra
armati e non (Aa.Vv. 1980). Nel complesso si stima che l'Italia, anche
al culmine dell'Alto Medioevo (sec.VI - VII), non fu mai abitata da meno
di 4/5 milioni di anime (Doren 1934, Pinto 1996). I barbari rappresentarono
dunque un apporto >10 <2 % della popolazione.
2) G.Gerosa Brichetto, Fuori di Porta Tosa, Milano 1973.V. anche,
dello stesso autore, La chiesa e il comune di Zeloforamagno, Peschiera
B. 1992.
3) Giovanni Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel
Medioevo italiano, Torino 1979 Einaudi.
4) "Dizionario dei nomi geografici italiani", Torino
1992 Utet.
5) Ibid., p.34
6) Cesare Amelli, Storia di Melegnano, 1974 - seg.; Luciano Previato,
San Giuliano Milanese, cenni storici, 1975.
|
|
da IL MELEGNANESE
n.18/2000 sabato 14 ottobre 2000
|