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1 - Introduzione: Milano alle soglie del Quattrocento
L'aspetto odierno di Milano è quello di una città senz'acqua,
ma per molti secoli della sua storia, e solo fino a una settantina di
anni fa, essa ha goduto di un assetto urbanistico diverso. Infatti, e
ben ce lo illustrano testimonianze scritte e iconografiche, era solcata
da canali che ebbero un ruolo basilare nel suo sviluppo.
La sua posizione, al centro di un'estesa pianura, e la sua condizione
di essere facilmente raggiungibile da più parti risultavano penalizzate
dalla mancanza di un corso d'acqua naturale, quello che in altri casi
aveva consentito fin dai tempi più antichi la nascita e l'affermazione
di forme di vita associativa. Nel sec. I a.C., in occasione della conquista
della Gallia, Milano si rivelò prezioso punto d'appoggio nell'organizzazione
della campagna militare, le venne, pertanto, assegnata la dignità
di "municipium" e si iniziarono a porre le consistenti premesse
dell'organizzazione del problema idrico.
La presenza di un corso d'acqua, infatti, era ritenuta indispensabile,
perchè garantiva molte delle funzioni vitali di un centro destinato
ad assumere un'importanza sempre maggiore: facilità di collegamento,
possibilità di fortificazione, smaltimento dei rifiuti, funzionamento
di ruote di mulino, nonché pesca e, più tardi, rifornimento
delle terme. Sfruttando sia la caratteristica di un terreno naturalmente
ricco d'acqua, sia la presenza di fiumi di modeste dimensioni che scorrevano
nei pressi della città, come l'Olona, il Nirone e il Lambro, Milano
che, non a caso, deve, molto probabilmente, l'origine del proprio nome
al fatto di essere "in medio amnium", in mezzo ai fiumi, fu
provvista di una rete di canali che, tra l'altro, ne garantivano il collegamento
col Po, e quindi con gli altri centri della pianura raggiungibili per
via d'acqua, e soprattutto con il mare. I Romani che, com'è noto,
oltre che costruttori di strade, furono anche particolarmente attenti
alla rete idroviaria, posero le basi di un sistema destinato a mantenersi,
pur con alterne vicende, fino alle soglie dei nostri giorni.
Del resto, la struttur statale romana godeva dei mezzi tecnici e organizzativi
adeguati ad una situazione che richiedeva una premura costante e un costante
interesse, ma anche successivamente, pur nelle mutate condizioni politiche
e pur nell'abbandono verificatosi per lungo tempo a cuasa della carenza
di un potere centrale, i canali continuarono ad esistere e a svolgere
la loro funzione. Funzione che poteva essere molteplice: canali scavati
in prima istanza con uno scopo, fosse di raccolta, o di fortificazione,
o di trasporto, finirono poi con l'adempiere, oltre a quello principale,
anche ad altri, o talvolta a tutti questi insieme.
Dopo i fervidi lavori dei secoli successivi al Mille, al sorgere del sec.
XV la città lombarda era già fornita di un'importante rete
idrica e l'acqua rappresentava una voce tutt'altro che secondaria nella
gestione del potere. L'uso dell'acqua, infatti, richiedeva un impegno
su più fronti: prima di tutto se ne doveva provvedere l'approvvigionamento
relativo ai vari impieghi che si facevano dell'acqua, poi occorreva sorvegliare
l'erezione dei manufatti idraulici e disporre per la loro conservazione,
ma soprattutto si doveva fare in modo che l'acqua fosse fruita in maniera
adeguata e secondo le esigenze sia pubbliche, sia private, queste ultime
fattesi particolarmente urgenti a partire soprattutto dalla seconda metà
del sec. XIV, quando si incrementò l'attività manifatturiera.
L'acqua, infatti, era indispensabile ad artigiani e bottegai perchè
azionava le macchine, permetteva la raccolta e l'allontanamento delle
scorie, consentiva, attraverso i canali e le soste, il trasporto delle
merci e dei prodotti. L'importanza dell'acqua, però, è legata
anche all'intervento su di essa operato dagli organi attraverso i quali
si esprimeva il potere e anzi proprio la gestione e il governo di questo
bene consentono un significativo riscontro. Se è vero, infatti,
che nella cura amministrativa confluiscono le due caratteristiche dell'acqua
di essere oggetto fisico e oggetto sociale e di conservare contemporaneamente
la duplice valenza di essere un fatto pubblico anche quando di pertinenza
di privati, è proprio nella modifica della concezione giuridica
a essa inerente, più ancora che nei criteri di gestione, che si
avverte il cambiamento di cui furono protagonisti, nei secoli di quello
noto come basso medioevo, gli organi del potere, tendenti a una centralizzazione
mai realizzata compiutamente e sempre alle prese con potentati riottosi
ad abbandonare un'autonomia, erosiva della stabilità di una già
precaria compagine statale.
Il largo impiego dell'acqua e soprattutto i diversi modi di considerarne
il significato sono in stretto rapporto con lo sviluppo delle vicende
politiche e istituzionali dello stato milanese, dal momento che, pur nel
mutare delle situazioni precipuamente afferenti alle sfere del potere,
le necessità urbane non solo si mantenevano costanti, ma a esse
se ne aggiungevano di nuove, conseguenti all'ascesa economica e commerciale
della città, aspetto questo che costituiva uno degli interessi
preminenti dell'autorità, al punto da condizionarne in più
casi l'azione.
2 - La legislazione prima e dopo l'ascesa di Giangaleazzo Visconti
(1385)
A partire dalla seconda metà del sec. XIII e poi per tutto il sec.
XIV si era assistito al passaggio dalle istituzioni comunali a quelle
signorili, affermatesi queste ultime, anche da un punto di vista formale,
con l'assunzione del controllo politico nel 1385 da parte di Giangaleazzo
Visconti, insignito, dieci anni più tardi, del titolo ducale.
Parallelamente, anche l'attenzione rivolta ai problemi di utilizzo dell'acqua
e la sua stessa concezione si erano modificate considerevolmente. Il "Liber
consuetudinum", il primo testo normativo successivo al Mille in cui
si faccia menzione dei problemi d'acqua è del 1216, e le consuetudini
ivi raccolte, in questo modo confermate nella loro validità, risalgono
in gran parte a un'epoca precedente. Da un lato ciò stava a significare
che la gestione di questo aspetto della vita sociale non aveva dovuto,
per lungo tempo, subire modifiche di rilievo, dall'altro, la mancanza
di una documentazione specifica su questo argomento, mentre è resente
per altre questioni, induce a ritenere che le situazioni dovessero svolgersi
in modo da non suscitare motivi di dibattito, o di contenzioso.
Fu a partire dalla metà del sec. XIII che si registrò un
cambiamento: del 1256 sono gli "Statuta utentium de aqua Vitabiae",
la prima raccolta di disposizioni interamente dedicata a questioni d'acqua,
a cui seguirono, quattro anni più tardi, gli "Statuta Nironis".
Si trattasse di fiumi naturali, come il Nirone, o di canali, come la Vettabbia,
l'acqua e le questioni ad essa inerenti necessitavano ormai di una normativa
specifica, vuoi per l'ampiezza che tali questioni avevano assunto in conformità
allo sviluppo cittadino, vuoi per l'allargarsi delle pertinenze giuridiche
e delle competenze amministrative e per l'inevitabile intreccio che ne
seguiva. Tuttavia, sono ancora esempi che, per quanto significativi, possono
essere considerati la risposta pragmatica a necessità provenienti
da uno stato di cose; diversi sono, quasi un secolo più tardi,
gli "Statuti delle strade e delle acque", del 1346, in cui è
evidente il tentativo da parte dell'autorità centrale di prendere
coscienza della gestione delle strutture urbane come strumanto per l'affermazione
di un potere ancora ampiamente condizionato dai particolarismi. Sebbene
questa iniziativa nei suoi esiti risulti lacunosa e frammentaria, in quanto
dettata da una mentalità legislativa ancora più attenta
alla soluzione di casi concreti che alla formulazione di principi, in
essa tuttavia si percepisce la preoccupazione di esercitare il controllo
di una complessa serie di problemi che rivestivano un ruolo importante
nella vita cittadina.
E', però, con Giangaleazzo, come si deceva, che si determinò
la svolta istituzionale all'origine di una serie di innovazioni e cambiamenti.
Prima di tutto la riforma amministrativa del 1386 che dispone una modificata
ripartizione degli ambiti di gestione e la presenza di nuovi funzionari
di nomina ducale, a cui seguì per quanto riguarda la normativa,
la redazione degli "Statuta Mediolani" del 1295. Nonostante
essi ripresentino in forma "grosso modo" analoga i limiti giuridici
dei precedenti statuti, puntualizzano elementi che, seppure importanti,
erano rimasti fino ad allora privi di una regolamentazione. Ad esempio
si definiscono i termini entro i qiali era possibile derivare l'acqua
con bocche, o con rogge e le relative sanzioni per i contravventori, o
anche come sitemare chiuse negli alvei dei fiumi: vengono, cioè,
specificatamente e puntualmente considerati quegli elementi attraverso
i quali sia possibile esercitare, da parte degli organi di governo, il
controllo sulla fruizione dell'acqua. Sono provvedimenti nuovi, certamente
importanti in se stessi, ma il dato più innovativo è rappresentato
dalla concezione che si viene formulando relativamente all'acqua: svuotatasi
in modo graduale della sua configurazione di "res publica",
l'acqua finisce con l'entrare a far parte dei beni patrimoniali del signore.
Proprio questa situazione spinge il signore e i suoi rappresentanti ad
un controllo più diretto e serrato e il cambiamento istituzionale
appare in larga misura ispirato, tra gli altri motivi, anche dal desiderio
o dalla necessità di acquisire questa fonte di ricchezza.
Questo atteggiamento, emanazione di un'autorità che ambiva a presentarsi
come unica fonte del potere, fu poi rafforzato dai successivi duchi Giovanni
Maria e Filippo Maria Visconti e a contrastarlo mancavano strumenti adeguati.
Per quanto riguarda le acque, le istituzioni comunali, alle quali in linea
di principio sarebbero dovuti competere i compiti di gestione di questa
risorsa cittadina, seppure non soppresse in epoca ducale ed anzi contemplate
dagli statuti, non godevano dell'autonomia sufficiente nello svolgimento
delle proprie mansioni. Infatti, anche se non esautorate, esse, di fatto,
si trovavavno nell'impossibilità di esercitare fino in fondo e
con pieno diritto la propria autorità cittadina, costrette ad agire
all'interno di uno stato in cui il duca, attraverso una politica in un
primo tempo di concessione di privilegi fiscali e giurisdizionali, poi
di infeudazione, si garantiva l'apoggio dei signori e delle comunità
del contado a scapito delle autonomie locali.
Se dunque a Milano erano le istituzioni comunali, il Vicario e i XII di
Provvisione coadiuvati dagli officilai e dai campari a stabilire i parametri
secondo i quali era permesso l'utilizzo e lo sfruttamento dell'acqua,
era il duca a goderne i vantaggi fiscali e di concessione. Vantaggi necessari,
tra l'altro, al finanziamento delle guerre volute da Filippo Maria, e
vantaggi che, paradossalmente, potevano essere tanto maggiori quanto più
frammentato e puntuale era il contenuto della normativa emanata dal duca,
disposta ormai più a incrementare gli introiti del signore, che
non mediata in vista di una più funzionale organicità.
3 - La visione dell'acqua come risorsa cittadina sotto Francesco Sforza
Un'ulteriore svolta si definì intorno alla metà del sec.
XV, dopo che Francesco Sforza nel 1450 si fu insignorito di Milano. Questo
cambio al vertice si verificò dopo il fallimento del tentativo,
condotto dalla Repubblica Ambrosiana alla morte di Filippo Maria, di ridare
alle istituzioni comunali l'antico ruolo direttivo. Questo tentativo se,
per un verso, può essere ritenuto manifestazione di una coscienza
civica non del tutto spenta, giungeva, però, in una forma ormai
sostanzialmente lontana dal modello a cui si ispirava e alla quale non
potè essere estraneo il ridimensionamento del significato politico
che appunto le istituzioni comunali si erano trovate a sperimentare con
i Visconti. Ridimensionamento imposto prima di tutto dall'essere la Repubblica
Ambrosiana espressione cittadina, mentre l'evoluzione politica dei decenni
precedenti, e non solo a Milano, si era, ormai, orientata decisamente
verso l'organizzazione di forme di potere supercittadine. Questo stato
di cose si sommava alle discordie che travagliavano un'oligarchia poco
compatta e pertanto incapace di far emergere dal prorpio interno la figura
di un signore. Proprio questo vuoto di potere, che di fatto si traduceva
nell'impossibilità di fronteggiare i nemici, e l'assedio posto
dallo Sforza, fu all'origine della consegna della città allo Sforza
medesimo.
A questo punto, però, non sitrattava più di una figura,
come quella dei Visconti, la cui autorità si era trasformata nel
corso del tempo; l'autorità dello Sforza, per quanto non esente
da nuclei di opposizione, poggiava proprio, anzi per il momento si potrebbe
dire quasi soltanto, sul riconoscimento da parte dei cittadini. Ecco che
allora quello che per i suoi predecessori era stata un'acquisizione ottenuta
alternando bruschi colpi di mano ad atteggiamenti di lenta erosione, per
Francesco sforza è piattaforma di partenza per organizzare, con
machiavellica virtù, il proprio stato, secondo una concezione destinata
ad accentuarne il carattere dinastico-patrimoniale.
Co questa idea di autorità, anche la considerazione riservata all'acqua
è diversa rispetto al passato e il duce di Milano da subito dimostra,
a questo tema un'attenzione particolare e, rispetto ai suoi predecessori,
molto più articolata. L'acqua, infatti, non è più
vista solo come cespite fiscale, per quanto questo aspetto continui ad
essere presente e con tutta la sua importanza, ma come un bene irrinunciabile
che merita di essere salvaguardato, incentivato e protetto per poter essere
sfruttato.
Nei capitoli della pace di Lodi, che, nel 1454, poneva termine alla lunga
rivalità con Venezia, lo Sforza, rinunciando, e non senza rammarico,
a Crema, cede alla Repubblica di San Marco anche la ragione dei Cremaschi
di derivare dall'Adda la roggia Retorto, nascente nel territorio di Cassano,
cioè nel ducato. Rinuncia non da poco, se si pensa all'importanza
che la coltura dell'irriguo aveva - ed ha ancora adesso - nella zona,
rinuncia, tuttavia, a cui lo Sforza si mantenne fedele, ed è Venezia
stessa a dargliene atto, nonostante i numerosi motivi di contenzioso,
inevitabili quando un corso d'acqua ha origine in uno stato per poi scorrere
in un altro. La volontà politica dello Sforza di mantenere il più
possibile la pace con la potente e temibile vicina derivava anche dalla
consapevolezza che, dato il ruolo economico svolto dall'acqua, qualunque
danno apportato in quest'ambito avrebbe provocato nella Serenissima una
reazione di un'entità difficile da quantificare, ma facile da prevedere.
Inoltre, ed anche di ciò lo Sforza era perfettamente conscio, diritti
d'acqua su territori contigui potevano affermarsi, ed essere realmente
fruibili, solo se considerati e rispettati nella loro interezza, nonostante
la presenza di confini e di divisioni politiche.
4 - Il Filarete, l'igiene ed i canali milanesi
L'importanza dei canali cittadini si mostrò, poi, in modo evidente
e specifico in occasione della costruzione di una grande opera pubblica:
l'ospedale. Col desiderio di accattivarsi il favore dei Milanesi, così
prezioso, come si diceva, per la stabilità del potere del duca
e nell'intento di incentivare il ripristino della normalità in
una città provata dalla guerra e dall'assedio, Francesco e Bianca
Maria, nel 1454, donarono, con privilegio ducale, il sito per l'erezione
della Ca' Granda. L'incarico per l'esecuzione dei lavori fu affidato ad
Antonio Averlino detto il Filarete. Costui, erede della tradizione architettonica
che aveva prodotto i begli esempi di Firenze e di Siena, e per questo
non gradito nell'ambiente lombardo in cui riuscì ad inserirsi solo
grazie alla protezione dello Sforza, sfruttò con originale spirito
innovativo la presenza del fossato, che correva lungo due lati dell'edificio,
per smaltire le sostanze luride. Attraverso una finestrella aperta accanto
a ciascun letto, si potevano gettare in un cunicolo, appositamente scavato
e confluente nel canale, liquami e putridume senza che infettassero, o
ristagnassero nelle aree circostanti. E' l'Averlino stesso che descrive
nell'Ospedale progettato per la Sforzinda, la sua città ideale
pensata sotto gli auspici del duca di Milano, questo sistema, sottolineando
prima di tutto la necessità che l'edificio in questione dovesse
sorgere presso un canale e conquelle caratteristiche di cui lui medesimo
aveva dotato appunto l'ospedale della città lombarda.
L'interesse del duca di Milano per l'acqua si manifestò di nuovo
tre anni più tardi in modo esplicito, quando, su richiesta di un
gruppo di nobili milanesi, con decreto ducale del 1 luglio 1457 concesse
l'autorizzazione allo scavo di un canale che sarà poi detto naviglio
della martesana. L'idea risaliva a un quindicennio prima ed era già
stata accolta da Filippo Maria nel 1443, senza che, però, se ne
cominciasse nemmeno la realizzazione, ma il progetto appoggiato dallo
Sforza si mostrava decisamente più ambizioso e interessante. Non
solo un canale, come aveva pensato il Visconti, che da Concesa alla Molgora
consentisse l'azionamento di impianti idraulici, sempre che l'acqua estratta
dall'Adda non danneggiasse il corso di questo fiume, la cui importanza
strategica contro Venezia era enorme, ma un canale che, dopo avere azionato
impianti idraulici, irrigato campagne, trasportato derrate, giungesse
in città, immettendosi nella fossa interna cittadina e si collegasse
in tal modo anche al naviglio Grande, derivato, come si sa, dal Ticino.
Si sarebbe così stabilito un tracciato che latitudinalmente avrebbe
toccato i confini del ducato da un capo all'altro, consentendo, grazie
alla fitta rete di rogge provenienti dai canali principali, di garantire
la distribuzione dell'acqua sul territorio.
Questo, infatti, continuava ad essere l'obiettivo, tanto semplice nella
sostanza, quanto complesso nella sua realizzazione. Se, infatti, lo scavo
dei canali principali si presentava impegantivo ed è evidente il
largo impiego di mezzi che ciò richiedeva, altrettanto, e per certi
versi, ancora più impegnativa era l'opera necessaria alla quotidiana
fruizione dell'acqua. Essa richiedeva lavoro costante, interventi puntuali,
attenzione capillare, in quanto qualunque ostacolo, o impedimento, o diversione
poteva compromettere parti più o meno grandi della rete idrica.
In breve, si trattava di assicurare la manutenzione di tutti icanali,
qualunque fosse la loro dimensione, degli edifici idraulici, come i mulini,
le chiuse, le conche, i ponti e di regolamentare l'uso dell'acqua, affinchè
essa potesse essere utilizzata per tutti gli scopi previsti e nelle quantità
e condizioni stabilite. Ognuna di queste intraprese ne conprendeva a sua
volta altre: la manutenzione dei canali, delle rogge e degli edifici idraulici
significava rafforzare rive e argini, ripulire l'alveo dai detriti e dalla
vegetazione spontanea, cosa che richiedeva lo svuotamento temporaneo dell'alveo
medesimo, la sostituzione o la riparazione degli incastri, che, costruiti
in legno, erano soggetti a continuo deterioramento e ugualmente richiedevano
interventi continui i ponti e le strade che costeggiavano i canali.
Si tratta di aspetti della gestione delle risorse idriche, o meglio dei
manufatti ad esse connesse, che hanno accompagnato in ogni tempo la presenza
di una fitta rete di canali e, certo, a mano a mano che larete si infittisce
e si completa, la sua manutenzione diventa un onere sempre più
gravoso, così come sempre più difficile diventano le operazioni
di controllo e di verifica degli abusi; tuttavia ancora una volta quest'ordine
di problemi va collocato in una più generale gestione del potere,
di cui l'acqua è voce importante, ma non unica, né isolata.
5 - Legislazione nuova e interessi individuali
Contemporaneamente a quello che abbiamo definito un graduale svuotamento
del significato di acqua come "res publica" e la sua conseguente
acquisizione tra i beni patrimoniali del signore, si assiste, si è
detto, ad un incemento normativo, che nella seconda metà del sec.
XV, se non completo, si è, però, conservato in misura cospicua,
sono contenute tutte le disposizioni ducali riguardanti la città
e il territorio del ducato. Mentre quelle che concernono altri aspetti
dell'amministrazione tendono gradualmente a diminuire, indice di un equilibrio
che, in qualche modo, si riteneva raggiunto, sempre più numerose
sono quelle inerenti ai problemi d'acqua: si tratta di ingiunzioni, disposizioni,
minacce di sanzioni, ripetizioni di precedenti provvedimenti, minuziose
annotazioni riguardanti la ripartizione degli oneri in denaro e in opere,
misurate in base alle proprietà posseduta dai beneficiari dell'acqua,
o alla loro attività. Esse si soffermano anche sui compiti che
spettano ai funzionari, soprattutto quelli che, come i campari, svolgevano
"in loco" le proprie masioni e quindi si trovavano più
drettamente coinvolti nella questione. Tutta questa massa documentaria
è sintomo certamente di una situazione importante, e quindi bisognosa
di regole, ma proprio da tutte queste regole, valide, ancora una volta,
più caso per caso che non in linea generale, emerge chiaramente
come l'onere della manutenzione in tutti isuoi aspetti siaormai di totale
competenza dei fruitori dell'acqua, di coloro, cioè, che possiedono
bocche, oppure che abitano lungo i canali, o ancora che svolgono una attività
per cui sia necessario l'uso di molta acqua, fruitori dai quali l'autorità
centrale riscuote tasse ordinarie e straordinarie. Ed emerge anche la
difficoltà a gestire una situazione resa così complessa
proprio dalla mancanza di una forma che precisi l'assunzione di responsabilità
da parte degli organi di potere. Una normativa troppo estesa e carente
dal punto di vista del programma amministrativo finisce per determinare
un vuoto legislativo in cui unici punti di riferimento sono l'avidità
fiscale e il privilegio.
Siamo lontani dai tempi in cui contro il Barbarossa si scavava un "fossatum
comunis Mediolani" e negli stessi anni con la pace di Costanza i
comuni si vedevano finalmente assegnare le regalie sull'acqua e questa
concezione privatistica dell'acqua così chiaramente affermata dal
signore nel corso del sec. XV provoca nei singoli un altrettanto spiccato
atteggiamento di difesa dell'interesse individuale. Si va a caccia di
esenzioni fiscali, si richiedono privilegi di cui è praticamente
impossibile verificare le pezze giustificative, o più semplicemente
si viene meno alle disposizioni nella speranza, o nella certezza, che
il controllo non venga effettuato, che gli officiali siano corruttibili,
oppure che la multa venga condonata, o cada in prescrizione. Il quadro,
infatti, di cui si dispone è da un lato di una normativa vanificata
nella sostanza da una ridondante quantità di casi eccezionali,
o di disposizioni straordinarie e dall'altra di una risposta che deve
essere stata fiacca a giudicare dalle continue, ripetute ingiunzioni e
minacce. Tuttavia i canali funzionavano e l'economia prosperava, segno
dunque che un equilibrio, seppure diverso da quello che si potrebbe ipotizzare,
doveva essere stato raggiunto.
6 - I magistrati incaricati della gestione delle acque
In questo contesto, un ruolo importantissimo fu svolto dalle magistrature
ducali sforzesche, in particolare dai magistrati delle Entrate Straordinarie.
I Magistrati delle Entrate erano sei, tre per le Entrate Ordinarie, tre
per quelle Straordinarie. Essi compaiono con la riforma amministrativa
di Giangaleazzo Visconti e, come dice bene la loro qualifica, loro compito
era occuparsi del fisco. Fu nella seconda metà del se. XV che acquisirono
un'importanza decisamente più rilevante che per il passato: frequente
è, infatti, il caso in cui a loro vengono affidati incarichi che
li vedono in rapporti di stretta collaborazione con il signore e proprio
ai magistrati delle Entrate Straordinarie viene affidata la gestione delle
acque.
A partire dall'epoca viscontea si era affermato in modo stabile e duraturo
un officiale preposto alla gestione delle acque: il giudice, appunto delle
acque. La creazione di questa carica seguiva quella di altri funzionari
precedenti, come il "magister acquarum civitatis Mediolani",prima
magistratura comunale di cui si ha notizia nel 1286, e altri ancora precedenti,
come il camparo, o i "sex sapientes viri". Con gli "Statuta
Mediolani" di Giangaleazzo, a partire cioè dal 1395, la sua
carica diviene quella di "giudice delle acque, delle strade e dei
ponti"; costui in taluni casi collaborava con le istituzioni comunali,
la cui giurisdizione, a differenza della sua, era,com'è ovio, limitata
alla città, ed essendo egli di nomina ducale, il suo parere e il
suo intervento risultano senza dubbio avere un peso diverso e preminente.
La situazione, però, mutò radicalmente dopo il 1450. Fu
infatti Francesco Sforza a dare ai Magistrati delle Entrate quel ruolo
di suoi stretti collaboratori che fu all'origine appunto della loro posizione
di primo piano nell'amministrazione dello stato. Il nuovo signore di Milano
da subito considerò di vitale importanza definire una rosa di funzionari
ai quali asseganre i compiti più delicati. Essi dovevano dare al
pari garanzie di capacità e di affidabilità politica ed
erano provenienti da una ristretta cerchia di famiglie più vicine
al duca. Questi funzionari sono i "domini de Consilio Secreto"
e i Magistrati delle Entrate. Di fatto, quindi, tutte le più importanti
questioni dell'amministrazione vengono affrontate ed eventualmente risolte
in questo ristretto e collaudato ambito politico. Le altre cariche previste
dalla burocrazia dello stato milanese, comprese quelle di "giudice"
e di "officiale delle strade, delle acque e dei ponti", non
vengono soppresse, ma, divenuta la loro funzione di fatto ormai superflua,
vengono utilizzate dallo Sforza in altro modo. Con il suo consenso comincia
ad affermarsi la prassi secondo la quale gli offici vengono messi all'incanto,
oppure concessi dietro sovvenzione fatta alla Camera Ducale, in pratica
vengono venduti, o ceduti gratuitamente a qualche protetto del duca. Ciò
significava che il criterio per la nomina del funzionario non era più
l'esperienza e le capacità, quanto piuttosto la necessità
di denaro da parte del duca.
Questo stato di cose soddisfaceva una duplice esigenza dello Sforza: da
un lato, come si è detto, rimpinguare le casse dello stato, dall'altro
mentenere un controllo più circoscritto sui funzionari che lavoravano
attivamente nell'amministrazione statale. Esso, però, si incontrava
anche con l'ambizione di una certa fascia sociale cittadina che, senza
correre alcun rischio, si veniva a trovare a contatto col principe e con
la corte, godendo di un vantaggio in termini di prestigio e di possibilità
di ricevere successivi favori superiori certamente alla modesta remunerazione.
E si incontrava anche con l'esigenza dei grandi ceppi magnatizi e nobiliari
che, con l'affermarsi della Signoria "non perdono, anzi rafforzano
il loro potere politico e sociale: ma è dallo Stato che ora esso
deriva (seppure per privilegio e in deroga a Statuti e decreti) ed è
nell'ambito dello Stato che ora esso si esercita. La via per ogni affermazione
politica e sociale passa ora necessariamente attraverso la cort, come
punto di riferimento obbligato".
Con il passare del tempo questa prassi si fece sempre più frequente
fino a divenire quella usuale e di pari passo si assiste ad un emergere
sempre più evidente dei Magistrati delle Entrate Straordinarie
nella gestione delle acque. Sono loro, e non più il giudice o gli
officiali, ad emanare disposizioni per conto del duca e lo fanno godendo
di un'autorità e di un prestigio superiore di certo a quelli goduti
prima dagli altri funzionari. La loro non è una carica amministrativa,
ma politica e non a caso si affida loro la gestione di una delle maggiori
fonti di ricchezza come l'acqua, data l'ormai provata impossibilità,
o incapacità, da parte degli organi di governo di individuare un'altra
strategia amministrativa efficace.
7 - Gli ingegneri e la questione della sopravvivenza di maestranze
antiche
C'erano poi altri funzionari che partecipavano alla gestione delle acque:
gli ingegneri ducali. Eredi di una tradizione che aveva visto gli "inzinerii"
già al servizio del comune, essi erano soprattutto funzionari stipendiati,
ma, in quanto officiali del duca, godevano del privilegio di essere in
contatto diretto con il principe e con la corte. La loro formazione poteva
essere quella tecnico-ingegneristica, oppure quella più solida
e più modesta del "magister" di particolare talento,
o ancora quella di intagliatori, scultori e pittori che, grazie alla loro
familiarità con il disegno, potevano occuparsi anche di architettura
e ingegneria civile e militare. Il loro reclutamento avveniva principalmente
sulla base della tradizione famigliare e della pratica di cantiere, in
quanto le loro competenze derivavano prorpio dalla sapienza di una tradizione
di lavoro su cui si poteva innestare l'ingegno personale.
Erano sostanzialmente dei tecnici, ai quali si richiedeva, da parte del
duca, di affrontare qualunque lavoro si ritenesse opportuno, e che in
generale vi riuscivano grazie alla loro formazione basata soprattutto
su di una collaudata pratica di mestiere e su di un approccio ai problemi
di carattere eminentemente empirico. Dal punto di vista della loro impostazione
professionale, quindi, l'opera di Frontino "De acquaeductu urbis
Romae", si inserirebbe a proposito proprio in questo contesto milanese,
dato che l'autore classico non ha in mente una trattazione teorica, ma
la redazione di un testo che presenta i risultati di un'intensa esperienza
diretta. Tuttavia il manoscritto e le successive edizioni cominciarono
ad essere conosciute troppo tardi. Perchè i suoi contenuti potessero
essere assimilati dall'ambiente milanese, dove mancava, tra l'altro, una
figura di intellettuale in grado di maturarne i risultati inserendoli
nella propria trattazione teorica e nella propria attività pratica,
come fu, per esempio, il caso dell'Alberti.
Sarebbe, però, difficile negare che parte di quel sapere tramandato
in famiglia e nei cantieri non sia in qualche modo anche sopravvivenza
di un patrimonio di conoscenze più antico, di cui si poteva anche
non percepire cansapevolmente la derivazione, come, d'altra prte, sarebbe
altrettanto difficile negare che attraverso la pratica e l'esperienza
di situazioni analoghe, vissute per i medesimi obiettivi non si possa
giungere ad intuizioni o risultati altrettanti analoghi, per quanto autonomi.
Resta, perciò, pressochè impossibile valutare la reale consistenza
ed incidenza di un sapere dopo tanti secoli. Quello che invece è
possibile, è analizzare atteggiamenti e iniziative e cercare di
ricostruire un filo conduttore di ricerca, di curiosità, di necessità
che può essersi mantenuto attraverso i secoli e di cui si possono
individuare le premesse remote.
Già in Frontino, ad esempio, è presente l'esigenza di definire
l'uso e la gestione delle acque secondo i criteri emanati dallo stato
e i suoi commentari sono principalmente dedicati alla soluzione dei problemi
tecnici di approvvigionamento e distribuzione delle acque.
Se in lombardia l'approvvigionamento non rappresentava un particolare
problema, poiché il territorio era naturalmente ricco d'acqua,
diverso è il caso della distribuzione e infatti uno dei problemi
più importanti con i quali si confrontano sia itecnici, sia gli
amministratori lombardi dei secoli XIV e XV è quello della regolamentazione
delle bocche. Tale problema riguardava in prima istanza il numero delle
prese, e conseguentemente delle rogge che, data la facilità con
cui si poteva scavare il terreno di Lombardia e data la natura pianeggiante
di quest'ultimo, non era difficile aprire ed eventualmente "spostare",
cioè riaprie in un altro punto, a seconda delle necessità
e non sempre mantenendo le medesime dimensioni. Anchequesto aspetto era
già noto a Frontino, egli, infatti, definisce "intolerabilis
fraus" il comportamento di un nuovo proprietario che sopprimesse
una fonte già esistente per aprirne una nuova. In seconda istanza
la regolamentazione delle bocche poneva un problema anche più complesso:
la quantificazione dell'acqua in rapporto alla portata del canale. Dalla
documentazione lombarda risulta che i termini presi in considerazione
a tale scopo sono il diametro della bocca e il tempo per il quale dura
il deflusso dell'acqua, utilizzando un approccio geometrico, l'unico evidentemente
allora possibile, che, però, consentiva un calcolo solo approssimativo.
A ciò si cercò di ovviare tenendo conto, senza, però,
riuscire a tradurla in termini numerici precisi, della pendenza del terreno.
Frontino aveva anticipato questo problema soffermandosi a determinare
i criteri di calibratura delle tubature, alla ricerca di parametri che
potessero consentire una determinazione quantitativa della portata delle
fonti e intuendo che l'altitudine di quest'ultima dovesse avere importanza
sul modo di deflusso dell'acqua. Solo il calcolo infinitesimale consentì
di risolvere questo problema, con l'inserimento dei valori numerici di
una terza dimensione: la velocità. Si può dire, però,
che da Frontino in avanti la misurazione dell'acqua continuò a
scontrarsi con questo problema. Problema la cui ricerca di soluzione prosegiì
nell'arco di secoli e fu all'origine di una vasta serie di sperimentazioni;
del resto la caratteristica di essere l'idraulica una tecnica emenenemente
legata al "reale", concezione che era anche di Frontino, nasceva
con ogni probabilità proprio dall'impossibilità, data dalla
carente strumentazione matematica, di superare un approccio esclusivamente
empirico della misurazione dell'acqua. L'idraulica era dunque vissuta
come una tecnica in grado di osservare i fenomeni, di tradurli nella pratica
con grande sapienza fattuale, senza, però, poterli possedere e
controllare in termini teorici.
In questa contraddizione concettuale, a cui, in ogni caso, fa riscontro
una grande capacità di analisi e di progettualità, il cui
apice è forse rappresentato da Leonardo, risiede gran parte del
fascino che i problemi d'acqua di quei secoli possono ancora suscitare
negli studiosi.
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