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Nella ricca
ed invidiabile storia lombarda, è ormai d'uso parlare di una ben
definita "Età dei Borromeo", uguale per dignità
storica a quelle, forse più note, dei Sant'Ambrogio, Visconti,
Sforza, dell'Illuminismo coi suoi Beccaria, Verri, Parini - clima culturale,
quest'ultimo, che ha permesso l'emergere di un Manzoni e di un Porta nel
successivo Romanticismo; (sempre in tema di epopee culturali, non bisogna
dimenticare - ormai in pieno XX secolo - la formazione qui avvenuta, delle
avanguardie futuristiche e del movimento italiano moderno).
Ebbene, tutte queste epoche, in meravigliosa successione, hanno lasciato
tracce nella storia universale, più che in quella locale: da qui,
la vocazione di Milano - "capitale" della Lombardia - ad assurgere
a metropoli autenticamente europea, seconda nessun'altra nel racchiudere
tesori di civiltà.
L'età dei Borromeo si inquadra in un momento assai critico per
la storia lombarda: quello della dominazione spagnola, coincidente con
la perdita completa dell'autonomia politica - cosa questa che non avveniva
ormai da parecchi secoli - e la definitiva cacciata degli Sforza nel 1535.
Carlo Borromeo, santificato nel 1610, prese possesso dell'archidiocesi
ambrosiana nel 1565, a soli ventisette anni, rimanendovi per altri venti.
Già cinque anni prima, a Roma, egli aveva ricevuto addirittura
la carica di Segretario di Stato Vaticano, contribuendo, assieme a Papa
Pio V - suo zio materno - alla lotta teologica nei confronti dei protestanti.
Insediatosi a Milano, continuò con più rigida intransigenza
a rintuzzare le infiltrazioni eretiche provenienti soprattutto dalla vicina
Svizzera e, nonostante fortissime resistenze, ristabilì l'ordine
fra il clero esercitandovi un controllo continuo attraverso instancabili
viaggi che lo portarono a visitare più volte tutte le parrocchie
della vastissima diocesi, nessuna esclusa. Non si contano le opere e le
istituzioni di carità a favore dei poveri, nate per suo interessamento;
alla stessa categoria di persone lasciò tutti i suoi averi.
Ciò che più è rimasto a caratterizzare l'opera del
Cardinale - e a renderne inconfondibili sia l'epoca che il paesaggio -
riguarda l'enorme quantità di cappelle fatte da lui costruire,
sparse in ogni sito della Lombardia, tanto che, ancor oggi, per qualsiasi
parte vi capiti di rendere visita - città, montagne e e campagna
- non si può fare a meno di trovarne. Al suo nome non è
legato un momento eccezionale come, ad esempio, il Duomo ai Visconti,
il Castello agli Sforza, il Teatro alla Scala all'Illuminismo e così
via, bensì un insieme di opere pubbliche quali sono i siti religiosi,
che ha di per sè del grandioso. Per queste, ed altre ragioni, ormai
si sostiene che egli fu lo spirito meglio rappresentativo dell'intera
Controriforma cattolica.
Dal periodo della morte di carlo (1584) alla nuova nomina cardinalizia
di un altro Borromeo passarono solo undici anni, sì che la continuità
di un metodo fu salva. Federigo Borromeo era stato praticamente allevato
dal maggior parente; anch'egli divenne cardinale giovanissimo: a ventitrè
anni, e non ne aveva trentuno quando divenne arcivescovo di Milano.
Al secondo Borromeo è legata la fondazione della Biblioteca Ambrosiana,
ancor oggi in funzione, molto pregevole per i testiantichi che vi si trovano;
ammiratore di Galileo, abbe a cura gli interessi della scienza, delle
lettere, della politica, oltre che, ovviamente, della religione, tutte
discipline per le quali scrisse numerosi trattati. La sua azione pastorale,
intensificatasi durante la terribile peste del 1630, è stata celebrata
dal Manzoni nel romamzo "Promessi Sposi" e, crediamo, non necessita
qui di ulteriori commenti.
Varrebbe invece la pena di soffermarci un poco sul rapporto contrastato
che i due grandi cugini ebbero con un elemento caratteristico della vita
popolare: la festa di massa, soprattutto carnevalizia, considerata aspramente
come fonte delle principali punizioni divine. Federigo, in particolare,
volle e riuscì almeno in parte, a far abolire dalle autorità
spagnole gli spettacoli teatrali.
Diciamo che gli spettacoli offerti dalle compagnie girovaganti - generalmente
nei pubblici mercati - non erano dei mdelli di serietà professionale:
ciò non solo per la volgarità dei testi - zeppi di battutine
tanto facili quanto laide - bensì per quanto vi avveniva regolarmente
attorno, come spesso succede nelle occasioni di raduni popolari: prostituzione,
ricettazione, furti, truffe, contrabbando, coperate dalla relativa facilità
con cui anche oggi ci si può nascondere quando è riunita
molta gente impegnata nelle più disparate attività. In epoca
normale, questi verrebbero definiti come semplici problemi di ordine pubblico,
ma nei secoli XVI e XVII malattie quali la peste e la sifilide erano all'ordine
del giorno; la promiscuità sessuale e lo sciaccallaggio nei confronti
dei colpiti della peste, altrettanto: nel suo "Memoriale", Carlo
scrisse: "Onde procedono tante rovine, tante calamità pubbliche,
guerre, carestie, terremoti, pesti, diluvi, incendi, perdite di regni.
occisioni di popoli, rebellioni, se non da così prodigiose e portentose
profanità? (...) Ora qui ricordati, Milano, le mascare, le comedie,
i giuochi paganeschi, i balli, i banchetti, gli eccessi delle pompe, le
spese disordinate, le risse, le questioni, gli omicidi, le lascive, le
disonestà, le mostruose pazzie e dissolutezze tue, le quali appunto
in questo tempo specialmente si vedono abbondare et inondare sopra di
te. (...) Già gli antichi pagani, in tempi ch'incrudeliva la pestilenza,
cominciarono a introdurre si fatti giuochi e spettacoli; volete voi ad
una certa imitazione loro nella estinzione della peste, ch'è tutta
grazia di Dio ritenere una simile usanza di cose sì esecrabili,
e che tanto spiaccion alla sua divina bonta?"
Il riferimento al mondo dei giochi dell'età romana non poteva essere
che pertinente: all'omicidio legalizzato sull'arena dei gladiatori, corrispondeva,
sulle gradinate, da parte degli "spettatori", ogni sorta di
efferatezza, tollerate dalle autorità per timore che tanta inciviltà
si riversasse sulle piazze piuttosto che negli irregimentati siti circensi.
Dunque, nell'esortazione sopra riportata, c'è tutto lo scopo del
cristainesimo in quanto religione umanizzatrice del sociale, nata da una
profonda crisi del mondo pagano, a cui non si può retrocedere.
Federigo fu ancora più incisivo nella lotta alle forme disordinate
della festa popolare; arrivò a colpire il teatro comico in sè.
"E' troppo noto che negli spettacoli comici (...), dove gli attori
si presentano sulla scena a recitare, l'anima viene contaminata da pensieri
impuri, gli occhi dalla vista di cose immorali, le orecchie dal suono
di parole oscene e nessuna parte, insomma, può rimanere immune
dall'immoralità".
Il brano riportato è tratto da una lettera personale all'imperatore
Filippo II, nella quale si chiede la censura preventeviva sui testi teatrali
così come già avveniva per i libri, nonchè la sospensione
degli spettacoli almeno la domenica, giorno della Messa. Ma un eccesso
di repressione porta ad un aumento della curiosità: il cosidetto
"Indice dei Libri Proibiti" fungeva anche da catalogo dei testi
da procurarsi clandestinamente, tanto che, paradossalmente, questi riuscivano
spesso a vendere di più di quelli liberamente in commercio; non
pochi scrittori, in specie se di poco conto, facevano di tutto per far
mettere all'Indice un loro lavoro, risultando la censura (fin d'allora!)
la migliore forma di pubblicità. Solo gli autentici intellettuali
non facevano che lamentarsi (oltretutto con argomenti che oggi potremmo
trovare sui giornali per analoghi problemi). In pieno '600, anche dopo
la morte di Federigo Borromeo (1631), la critica controriformistica al
teatro assunse toni particolarmente drammatici, essendosi estesa alla
forma specifica, non solo quindi contro contro quello comico.
Un grande difensore del teatro fu tuttavia un religioso gesuita: Gian
Domenico Ottonelli (1584-1670), che col suo trattato "Della cristiana
moderazione del teatro" introduce per l'appunto il concetto di spettacolo
"equilibrato", finalizzato a temperare gli eccessi, anche degli
attori, a stimolare i sentimenti ed il contenuto civile dei testi, che
avranno però solo più tardi, con Carlo Goldoni (1707-1793)
il suo grandissimo interprete e innovatore. Tuttavia, il secolo XVII è
già dominato dal nuovissimo stile barocco, ossia da una concezione
estremamente teatrale della vita privata e pubbilca, dell'urbanistica
cme dell'architettura.
La tratralizzazione del mondo (in greco "teatron" è un
luogo pubblico e circolare, adatto a contenere un grande numero di spettatori,
ma il cerchio è anche simbolo di perfezione), è colta dal
Manzoni fin dall'apertura dei "Promessi Sposi", là dove
si descrive, in apertura la scena-paesaggio abitata dai due giovani protagonisti:
"Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene
non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, aseconda dello sporgere
e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e
a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia
costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive,
par che renda ancora più sensibile all'occhio questa trasformazione,
e segni il punto in cui il lago cessa, e l'Adda ricomincia, per ripigliare
poi il nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua
distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e nuovi seni".
Non sembra la descrizione di un edificio barocco tutto a linee concave
e convesse (seni e golfi), a sporgenze e meno, figure plastiche (Qule
ramo... che volge a mezzogiorno), illusioni ottiche (par che renda ancora
più sensibile all'occhio questa trasformazione), equilibri precari
e dialoghi con l'acqua ottenuti attraverso ripetizioni e improvvise interruzioni?
La stessa trama del romanzo, quella dei giovani innamorati e però
perseguitati da un arrogante aristocratico, non è davvero anomala
rispetto al teatro popolare in maschera - seicentesco e meno -, dove solo
i protagonisti usavano recitare a volto scoperto. Ma i non protagonisti
come, nel caso specifico, i don Abbondio e gli Azzeccagarbugli, ricordano
già le tragicomiche figure popolari di un dottor Ballanzone o di
un Pantalone; i don Rodrigo e gli Innominato - con la corte di "bravi"
al seguito - sono tipicissime maschere demoniache, distrutte dal peccato
e dalla peste, mentre la Milano sconvolta dallo stesso "morbo sociale"
è ancora una volta una grande scenografia dove ballano cadaveri,
furfanti e guardie rozze: insomma una del tutto tradizionale, per il teatro,
"discesa agli inferi" quella di Renzo, offerta dall'Autore come
prova della reale bontà del giovane. Infine, i vari "deus
ex machina" (letteralmente: "il dio calato dall'alto tramite
apposita macchina", in teatro veniva impiegata per trarre d'impaccio
il beniamino del pubblico): Padre Cristoforo, Suor Gertrude, Don Ferrante,
il cugino di Bergamo, il Cardinale Federigo; la stessa peste ed il temporale
purificatore sono "manus dei" operante anche attraverso gli
elementi della natura, come usava l'antico teatro greco.
Eppure, nonostante questa grottesca rappresentazione del secolo XVII,
manzoni sente di non poter rinunciare ad idealizzare la figura di Federigo
Borromeo, dedicandogli addirittura l'intero XXII capitolo.
Il rapporto fra Carlo e l'ancor fanciullo Federigo è descritto
in termini realistici: il primo appare al secondo come una figura gigantesca,
solenne e quasi spettrale, pronta a soggiogarlo con la sua personalità,
protettiva ma anche fortemente censoria. Federigo, ed è questo
che manzoni gli ammira, dovette alquanto sforzarsi per tutta la vita di
imitarlo, anche nel difficile compito di aiutare i deboli; i quali, già
conoscendo cosa significhino realmente i vuoti del potere, dovettero dedicarsi
frequentemente all'arte di arrangiarsi, come personaggi quali Renzo, Lucia,
padre Cristoforo, Agnese insegnano. Notoriamente, il modo manzoniano di
considerare le classi umili è di tipo paternalistico. Ma, a guardar
bene, quel modo non doveva essere dissimile da quello dei cardinali Borromeo.
Neppure la religiosità "bigotta" di Lucia doveva essere
tanto differente da quella delle fanciulle dell'epoca, in specie se nella
malaugurata situazione di essere perseguitate, senza protezione se non
quella psicologica fornita dalla fede.
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da "Arte e Popolo nella Media Valle del Lambro" parte prima:
era preindustriale. A cura del gruppo di iniziative culturali "La
Civiltà dell'Acqua". Supplemento a "L'informasalute -
Periodico dei Comuni della Media Valle del Lambro, numero 5, settembre-ottobre
1985.
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