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(1519) L'odioso governo che il Lautrec faceva dello stato di Milano aveva
fatto emigrare un buon numero di cittadini, o per sottrarsi alla violenza
o per aspettare un miglior tempo, sotto un meno arbitrario governo. Girolamo
Morone, il quale era "l'ame de toutes les intrigues, et le véritable
chef des mécontens", dispose che questi esuli malcontenti
si radunassero in Reggio di Lombardia, città che allora era posseduta
dal papa, e quest'adunanza avea per oggetto l'espulsione de' Francesi
dall'Italia, e lo stabilimento della casa sforzesca sul trono di Milano,
col riconoscere per duca Francesco, duca di Bari, fratello del duca Massimiliano,
e figlio del duca Lodovico Maria. Per comprendere quali apparenze vi fossero
da concepire quest'idea, conviene dare un'occhiata alle combinazioni politiche
generali di que' tempi. L'imperator Massimiliano avea terminata la sua
vita il giorno 12 di gennaio 1519, e, malgrado gli uffici della Francia,
era stato eletto imperatore il re di Spagna Carlo, il quale rese poi nelle
serie de' cesari famoso il suo nome di Carlo V. Questo monarca, nel vigore
del ventesimo anno dell'età sua, favorito dalla natura d'un animo
attivo, elevato, passionato per farsi un nome, favorito dalla fortuna,
che gli avea dati i regni delle Spagne, quei delle due Sicilie, la Fiandra,
l'Olanda e gli stati della Germania; questo imperatore potente, appena
innalzato al trono cesareo, rivolse lo sguardo all'usurpato dominio di
Francesco I nel Milanese, feudo imperiale dominato dal re senza investitura
o dipendenza dall'Impero. Nella Germania le nuove dottrine di Lutero s'andavano
spargendo; già varii sovrani le proteggevano; e correva rischio
il papa di perdere del tutto la Germania, se Carlo V, vigorosamente opponendosi,
non avesse posto al bando dell?impero il promotore de' nuovi dommi, il
quale "sarebbe stato facile, dandogli qualche dignità o qualche
modo onesto di vivere, di farlo pentire degli errori suoi", dice
il Guicciardini, se il cardinal Gaetano, legato apostolico, colle ingiurie
e colle minacce non l'avesse spinto al disperato partito che prese dappoi.
Il papa per questo gravissimo oggetto della Germania avea bisogno di tenersi
amico l'imperatore. Il papa non perdeva di vista Ferrara, Parma e Piacenza,
e, collegandosi con Carlo V per discacciare i Francesi da Milano, otteneva
di staccare nuovamente dal ducato di Milano queste due città, già
usurpate da Giulio II, e di consegnare il rimanente del ducato a Francesco
Sforza. Segretamente si andava concertando la lega fra Carlo V e Leone
X. Francesco Sforza stavasene a Trento. L'imperatore gli assegnò
centomila scudi, ed ottantamila gliene assegnò il papa, colle quali
somme potè assoldare degli Svizzeri, a ciò aiutato dal cardinal
di Sion. I Fiorentini, il marchese di Mantova entrarono nella lega contro
dei Francesi. Molto confidavano a Cesare e il papa sulla buona volontà
de' Milanesi, l'affetto dei quali molto doveva contribuire all'esito della
guerra. E questo motivo fu quello per cui dal Morone vennero essi chiamati
a Reggio, di che veggasi l'opera, poco sinora conosciuta, ma che merita
di esserlo, del Sepulveda: "De Rebus gestis Caroli V imp. Et regis
Hisp.", autore contemporaneo, che scriveva i fasti del monarca al
quale serviva, e dal quale anche a voce poteva chiedere istruzione de'
fatti che esponeva in buon latino nel di lui regno. Della qual opera v'era
bensì la tradizione nella Spagna, ma a caso venne a trovarsi manoscritta
soltanto l'anno 1775, e si publicò dalla regia stamperia di Madrid
nel 1780, sotto la direzione della reale accademia di storia.
(1520) Il maresciallo di Foix, ossia Lautrec, informato di questa unione
che si andava facendo in Reggio, quantunque le intelligenze fra il papa
e l'imperatore fossero segrete, senza rispetto alla pace vigente, invase
a mano armata il Reggiano, e si accostò alla città con animo
di sorprendere i Milanesi forusciti. Il Guicciardini storico era allora
comandante di Reggio, e seppe rendere vano il progetto de' Francesi, le
violenze de' quali, commesse in quella infruttuosa spedizione, sono da
lui medesimo descritte. Un tal fatto, seguito nel seno apparente della
pace e ad insulto sulle terre del papa, cagionò negli animi sempre
maggiore il ribrezzo verso della dominazione francese, che sconsigliatamente
il Lautrec aveva resa disgustosissima ai popoli.
(1521) Questa incauta scorreria sul Reggiano seguì nel 1521, ed
un fenomeno fisico, accaduto poco dopo in Milano, si combinò sgraziatamente
pei Francesi onde alienarne sempre più gli animi degl'Italiani,
colla persuasione di essere la stessa divinità manifestamente nimica
della dominazione francese. Erano stati poco prima scomunicati dal papa
Leone X gl'invasori del Reggiano. La vigilia appunto di San Pietro, cioè
il giorno 28 di giugno del 1521, due ore prima che tramontasse il sole,
essendo il cielo quasi sgombro, da una nuvola si scagliò un fulmine
sulla massiccia torre di marmo che stava sulla porta del castello di Milano.
Quivi era a caso collocata una porzione di polvere, destinata a spedirsi
alle altre fortezze dello Stato, che dal Gaillard si fa ascendere a dugentocinquantamila
libbre. Prese fuoco, e la esplosione fu orrenda. Il comandante del castello,
signor di Richebourg, e trecento soldati francesi acquartierati vi rimasero
sepolti. La "torre era", come attesta il Guicciardini, "di
marmo, bellissima, fabbricata sopra la porta, nella sommità della
quale stava l'orologio", il che produsse la rovina quasi totale del
castello; e la piazza del castello, sulla quale in quel punto trovavansi
molti al passeggio, rimase coperta di cadaveri e di tanti sassi, che pareva
cosa stupendissima; alcuni sassi di smisurata grandezza volarono lontani
più di cinquecento passi. Il Burigozzo così descrive il
fatto: "ma a dì 28 zugno 1521, che fu la vigilia de santo
Pietro, a due ore prima di notte, venne uno horribile tempo da sorte che
la sajetta dette in el torrazzo in mezzo della fazada del castello, dove
gli era gran quantità de polvere da bombarda, talmente che quella
torre sino al fondamento fu fracassata, et portò prede grandissime
sino al mezzo della piazza, e tutto il castello se squassò, adeo
che per la ruina grande che fu, moritte el capitaneo et da rocca et da
castello, sotto le prede qual ruinorno, et moritte innumerabile altra
gente, d'onde questo fu una gran cosa". E il Grumello riferisce il
fatto nel modo seguente: "A dì 28 junio 1521 da hore 23 dette
la saietta in la torre de le hore del castello di Porta Giovia de Milano,
cossa stupendissima et da non credere chi non la vide, et io la vidi con
gli occhii levar la media parte de dicta torre et li fondamenti insiema
et portarla oltra il revellino et la fossa, et gittarla in su la piazza
de dicto castello, et hebe occixo li doi castellani et il cavalero Vistarino,
quale hera ditenuto in prigione in epso castello, et foreno occixi la
più parte de la gente harano habitante in detto castello. Le ruine
de le stancie et tecti et muraglie non ne dicho niente. Più ruina
fece Iddio in un momento in epso castello, che non haveria facto l'artellaria
dil re gallico in un anno. De le ruine facte di fora dil castello non
ne scrivo, come ruinamenti de tecti, de ecclesie, caxe, rompimenti di
catenazzi, de botteghe, invetriate, cose admirande". Di questo disastro
ne scrive un'altra cronaca citata dal Lattuada, ed è di Bernardino
Forni da Gallarate. Il papa non tralasciò di far ravvisare la vendetta
di san Pietro in questo avvenimento; e questo ancora contribuì
non poco a sgomentare i partigiani francesi, e ad animare sempre più
i loro avversari. Quindi colta l'opportunità della violazione fatta
sulle terre pontificie, e datane ai Francesi tutta l'odiosità,
si pubblicò senz'altro la lega, e si radunò verso Bologna
la già disposta armata.
Il papa Leone X spedì seicento uomini d'armi papalini, toscani
e mantovani. Seicento altri uomini d'armi ne fece marciare da Napoli l'imperatore
Carlo V. Diecimila fantaccini vi erano, parte italiani, parte spagnuoli,
ed ottomila fantaccini oltramontani. Prospero Colonna comandava l'armata
della lega pontificia; sotto di lui comandava Ferdinando d'Avalos, marchese
di Pescara; ed era già in modo distinto in quell'armata Antonio
da Leiva, soldato di fortuna, il quale ebbe poi molta influenza nel Milanese,
come si vedrà. Il conte Guido Rangoni, Giovanni de' Medici, principe
della casa di Toscana, Girolamo Morone, vi si trovarono parimenti. A questa
armata si unì un corpo di Svizzeri condotti dall'ostinatissimo
cardinale di Sion. L'armata de' collegati prese Parma. Gli Svizzeri stipendiati
da lautrec mancando la paga lo piantarono, dice il Guicciardini. I collegati,
dopo ciò, poco penarono ad impadronirsi del Milanese. Lautrec tentò
invano a Vaprio di disputar loro il passaggio dell'Adda. Giovanni de'
Medici, montato su d'un cavallo turco, arditamente fu il primo a passar
l'Adda, il che animò l'esercito a seguirlo. Lautrec si ricoverò
in Milano, "dove arrivato, o per non perder l'occasione di saziar
l'odio prima concepito, o per mettere con l'acerbità di questo
spettacolo terrore negli animi degli uomini, fece decapitare pubblicamente
Cristoforo Pallavicino; spettacolo miserabile per la nobiltà della
casa, e per la grandezza della persona, e per l'età, e per averlo
messo in carcere molti mesi innanzi alla guerra". Questo illustre
signore, parente della casa Medici, forse in odio del papa mandato dal
Lautrec al patibolo, aveva settantacinque anni. Dopo l'affare di Vaprio,
Lautrec entrò in Milano il giorno 10 di novembre 1521, e il giorno
11, due ore avanti il giorno, venne il Pallavicino decapitato sulla piazza
del castello di Milano. Egli era stato fatto prigione con insidia dal
fratello di Lautrec, ch'era compare di lui. Stavasi Cristoforo Pallavicino
nel suo castello di Buffetto dove accolse l'insidiatore. Già sino
dal giorno 6 di luglio il di lui nipote Manfredo Pallavicino era stato
squartato vivo sulla medesima piazza del castello, e le sue membra poste
sulle porte della città; "et a molti altri gentiluomini milanesi,
placentini, et dil Stato fureno tagliate le teste". Bartolomeo Ferreri,
a detta del Guicciardini, insieme col di lui figlio, aveva terminati per
mano del carnefice i suoi giorni. Insomma il Gaillard dice: "le mareschal
de Foix se ressasia de vengeances cruelles, et combla le désespoir
des malheureux Milanois, le suplice fut le partage de tous ceux, qui avoient
eu les moindres relations avec Moron".
Frattanto il crudele Lautrec inferociva in Milano, l'armata de' confederagti
s'accostò alla città. Io, come sempre, così al presente
tralascio di annoiare il lettore colla esatta descrizione delle mosse
e dei minuti avvenimenti marziali. Pare che gli scrittori prendano un
piacer singolare ad internarsi colle descrizioni in siffatte carneficine,
e nelle gloriose sceleraggini della guerra. La filosofia c'insegna a non
abituarci a mirare con insensibilità simil sciagure; e forse il
bene dell'umanità suggerirebbe di non consecrarle alla gloria,
ma di punirle col silenzio degli storici. L'armata de' collegati s'impadronì
di Milano il giorno 19 di novembre 1521. Vi entrarono Prospero Colonna,
il cardinale dei medici, il marchese di mantova, "ignorando quasi
i vincitori", dice il Guicciardini, "in qual modo o per qual
disordine si fosse con tanta facilità acquistata tanta vittoria".
Molte case vennero saccheggiate dagli Spagnuoli col pretesto che fossevi
roba de' Francesi. Venne proclamato duca Francesco II Sforza, e Girolamo
Morone vi comparve governatore in nome di lui. Lautrec lasciò nel
castello di Milano un presidio francese, sotto il comando del capitano
Mascaron, di nascita guascone. Cremona pure conservò nel castello
i Francesi sotto il comando di Janot d'Herbouville; Como, Lodi, Pavia,
Alessandria, Piacenza e Parma vennero tosto in potere della lega. Appena
Leone X ebbe la nuova d'essersi occupate dalle armi pontificie le città
di Parma e di Piacenza, e d'essere in potere della lega lo stato di Milano,
e proclamato lo Sforza, ch'ei morì improvvisamente, all'età
di quarantaquattro anni, il giorno 1° di dicembre 1521, non senza
sospetto di veleno, per cui venne carcerato Barnabò Malaspina,
suo cameriere, deputato a dargli da bere. La morte del sommo pontefice,
che aveva somma influenza negli affari appena innoltrati, cagionò
non lieve inquietudine negli animi.
(1522) Al momento che gli avvenimenti cominciarono a mostrarsi prosperi,
Francesco Sforza, il quale coi denari somministratigli da Cesare e dal
papa, aveva presi al suo stipendio seimila Tedeschi dal Tirolo, passò
nella Lombardia; e come dice Sepulveda: "Franciscus quoque Sfortia,
quem Germanorum sex milia sequebantur, Mediolanum pervenit, singulari
civitatis gratulatione"; e ne adduce il motivo, perché era
"vir de cujus humanitate, temperantia et justitia, magna erat hominum
opinio". Da Trento passò pel Veronese senza ostacolo con seimila
fanti tedeschi, ai quali i Veneziani non fecero opposizione, indi per
il Mantovano, Casalmaggiore e Piacenza portossi a Pavia. Lautrec e alcuni
corpi veneziani s'erano posti a Binasco per impedire la venuta a Milano
del duca; ma lo Sforza, colto opportunamente il tempo, passò a
Milano il giorno 4 aprile 1522. "Dove è incredibile a dire
con quanta letizia fosse ricevuto dal popolo milanese, rappresentandosi
innanzi agli occhi degli uomini la memoria della felicità con la
quale era stato quel popolo sotto il padre e gli altri duchi sforzeschi,
e desiderando sommamente di avere un principe proprio, come più
amatore de' popoli suoi, come più costretto ad avere rispetto e
fare estimazione dei sudditi, né disprezzarli per la grandezza
immoderata"; è la cronaca del Grumello: "fece la intrata
in la città Mediolanense con allegria, et tutto il populo con sonar
di campane, sparare di artellaria, parendo ruinasse il mondo. Mai fu visto,
ne audito tanto triumpho. Cosse da non creder fireno facte per epsa repubblica
mediolanense di allegria di Francisco Sforcia suo duca, et domandando
denari el Sforcia per paghare lo exercito cexario, da gentiluomini, marchatanti,
plebei et poveri herano portati danari, collane, argento; ogniuno portava
qualche cossa per far danari, che mai fu visto tanta domistrazione di
amore, et di tutto hera tenuto bono conto, et a tutti quali havevano dato
danari, collane, argento, fu a tutti facta la restituzione per Francisco
Sforcia, et così fu dato pagha allo exercito cexareo, et ogniuno
fu di bono animo di combattere contro i galli".
Frattanto Lautrec co' suoi Francesi, con ottomila Svizzeri, e coi Veneziani
s'era ricoverato a Monza, ove eranvi il Monmorenci, il maresciallo Chabannes,
il Bastardo di Savoia, il gran scudiere Sanseverino, il duca d'Urbino,
Pietro di Navarra, ed altri illustri personaggi. L'armata della Lega,
sotto il comando di Prospero Colonna, aveva posto gli alloggiamenti alla
Bicocca, luogo situato fra Milano e Monza, e lontano circa quattro miglia
della città; il luogo era vantaggioso per la difesa. Lautrec aveva
sin da principio avvisato il re, ch'ei non avrebbe potuto difendere lo
Stato contro l'armata che si andava formando, a meno che non gli venissero
spediti soccorsi dall'erario, onde stipendiare un numero conveniente di
Svizzeri; e dalle lettere era bensì stato assicurato di riceverlo,
ma realmente mai non l'ebbe. Egli teneva animati gli Svizzeri, mancanti
de' loro stipendii, con promesse di imminente arrivo di danaro; ma essi,
già troppo lungo tempo delusi, più non badavano alle lusinghe;
e minacciavano di abbandonarlo e ritirarsi alle loro case. Il signor di
Brantome, nella vita di lautrec, ricorda il fatto dell'illustre cavaliere
Bayard a Pamplona, dove essendosi ammutinati gli Svizzeri che erano sotto
i suoi ordini, egli, colla sua gendarmeria, benchè non numerosa,
seppe reprimerli. Lautrec in vece, secondandoli, volle tentare una giornata:
la tentò il 27 di aprile 1522, venne battuto e rispinto e perdette
il Milanese. Brantome lo condanna per non aver preso almeno il partito
di starsene sulla difesa, aspettando nuovi soccorsi. A me sembra che il
Lautrec abbia operato senza prudenza; s'ei vinceva, avevano i collegati
quattro miglia distante una città amica dove ricoverarsi; se perdeva,
era tosto abbandonato dagli Svizzeri; i Veneziani freddamente l'avrebbero
secondato, ei rimaneva con un drappello di Francesi appena bastante per
ricondurlo nella sua patria. Come andasse quell'affare ce lo dicono minutamente
più autori. Francesco Sforza era in Milano. Avvisato che i Francesi
si movevano verso de' collegati, fece dar campana a martello in Milano,
dove, e per odio verso de' Francesi, e per amore verso del duca, al momento
uscirono quanti cittadini potevano armarsi per combattere; e seimila se
ne contarono: "Jussis igitur Sfortia popularibus omnibus arma sumere,
peditum armatorum sex millia, et item quadringentos equites educit: cum
his ad Bicocham in via, quae ducit Modoetiam, consistit". Ed il Grumello
dice: "mai fu visto tanto populo correr alle arme, et il frate predicator
di Santo Marco con il crocefisso in mane facendo animo a Milanexi volessero
combatter, che era il giorno de la victoria et ch'hera certifichato che
vincerebbono senza alchun dubbio. El Sforcia, unito suo exercito, ussite
de la città Mediolanense, et pigliò il cammino de la Bichocha
con sua ordinanza". Oltre seimila cittadini milanesi armati, che
sortirono a piedi in seguito del duca, quattrocento lo accompagnarono
a cavallo. IL duca co' suoi giunse prima che cominciasse l'attacco. Egli
si pose alla difesa di un pone, ed ivi infatti si scagliò col maggiore
impeto il maresciallo di Foix: ma sebben penetrasse, venne rispinto poi
con tanto disordine, che la battaglia diventò un macello, poiché
dal ponte non potendovi passare che tre uomini di armi di fronte, e ammucchiandosi
per la smania di uscire in salvo, si trovarono talmente stretti i nemici,
che nemmeno fu loro possibile il difendersi; quindi la maggior parte vennero
tagliati a pezzi. I Veneziani poco si mossero e rimasero quasi spettatori.
Lautrec aveva fatto coprire di croci rosse il corpo di battaglia: questa
era la divisa de' collegati, che sperava di sorprendere. Ma Prospero Colonna,
informato di ciò, fece porre a' suoi un manipolo d'erba sull'elmo,
e così venne delusa l'astuzia. Tremila Svizzeri rimasero sul campo.
Gli altri il giorno seguente abbandonarono l'armata. La battaglia della
Bicocca è rimasta nella memoria dei Francesi, i quali, per significare
che un sito costerebbe molto sangue, e gioverebbe poco acquistandolo,
soglion dire: "c'est une bicocque". La conseguenza di tal giornata
fu che i Francesi intieramente perdettero il Milanese. I Francesi occuparono
Lodi, ma ne furono scacciati il dì 3 maggio 1522; indi perdettero
Pizzighettone, poi Genova il giorno 23 giugno. Non rimase ai Francesi
che il castello di Milano, che evacuarono poi il giorno 15 d'aprile dell'anno
seguente, ed il castello di Cremona, il quale durò più tempo
nelle loro mani. Le bandiere acquistate alla Bicocca si collocarono in
trionfo nel Duomo.
Ad animare il popolo molto giovò un frate Agostiniano, che il Guicciardini
chiama Andrea Barbato. Costui, eloquente predicatore, mosso fors'anche
dal sagacissimo Morone, aveva preso sopra del popolo quel predominio,
che ebbe già in prima frate Jacopo de' Bussolari in Pavia; e senza
ricorrere ai secoli trasandati, come l'ebbe in Napoli il gesuita Pepe,
il quale, padrone del popolaccio, a forza di biglietti stampati con parole
pie, ammassò tanto da far gittare una statua d'argento di naturale
grandezza. Egli dal pulpito annunziò la morte del proporto Lodovico
Antonio Muratori, padre e maestro della critica e della erudizione, onore
dell'Italia, e lo annunziò "Franco Muratore", e nemico
della vergine, "nemico de Mamma mia". Lo stesso spirito mosse
a declamare altri da que' pulpiti contro Pietro Giannone, costretto a
perdere la patria, e ridotto a terminare i suoi giorni in un carcere in
pena d'averli spesi ad onore dell'Italia, patria nostra, sedotta dalla
interessata e sediziosa voce d'un sacro declamatore. Morone conobbe quanta
utilità poteva cagionare un tal mezzo, e l'adoperò. Questo
frate si pose a predicare con applauso, anzi con entusiasmo universale
in Milano, e confortava i Milanesi a difendersi contro dei Francesi, che
stavano per discendere dalle Alpi, ricordando che se erano stati crudeli
per lo passato, ora per odio e vendetta di aver abbracciato il principe
naturale, non si sarebbero saziati di carneficine, né appagati
con tutto l'oro, ed avrebbero con più ferocia rinnovata la memoria
del Barbarossa. Ricordava gli esempi de' valorosi antenati, assicurava
la salute eterna a chi moriva colle armi in mano per difesa della patria
e del suo legittimo sovrano. Comparve sommamente animato il corpo de'
cittadini milanesi formato dalla milizia urbana. "Era meraviglioso
l'odio del popolo milanese contro ai Francesi, maraviglioso il desiderio
del nuovo duca; per le quali cose, tollerando pazientemente qualunque
incomodità, non solo non mutavano volontà per tante molestie,
ma messa in arme la gioventù, ed eletti per ciscuna parrocchia
capitani, concorrendo prontissimamente giorno e notte le guardie…
alleggerivano molto le fatiche dei soldati".
Il duca Francesco Sforza l'anno 1522 confermò il senato; stabilì
che venisse composto di ventisette senatori, cioè cinque prelati,
nove cavalieri e tredici dottori. L'editto è del giorno 18 maggio
1522. Questo corpo ebbe in quella occasione la pienissima podestà
di procedere, e giudiziariamente, ed anche per la via della equità:
"possitque ea omnia quae justitiae et aequitatis". Creato, siccome
vedemmo, nel principiare del secolo XVI, egli, sebbene mutata la forma
e ridotto a soli undici giureperiti, de' quali nove soli sedenti, durò
sino alla primavera del 1786 per lo spazio di duecent'ottantacinque anni.
Gaillard, nella sua assai bella storia del re Francesco I, ci informa
di varii aneddoti, i quali hanno relazione immediata cogli avvenimenti
accaduti nel Milanese. Lautrec, siccome accennai, aveva da bel principio
chiesto soccorsi di denaro al re, protestandosi incapace di far fronte
ai collegati senza di questo mezzo, per mantenere l'armata ed accrescerla
cogli Svizzeri. Il re credeva che lautrec avesse ricevuti quattrocentomila
scudi, ch'egli aveva comandato se gli spedissero; e restò sorpreso,
allorchè intese da Lautrec in sua discolpa che nulla eragli giunto,
e che i Francesi erano creditori dello stipendio di diciotto mesi. L'ordine
l'avea dato il re ad un vecchio ed onorato ministro di somma integrità,
che il re chiamava padre suo, cioè al sopraintendente Saint-Blancay,
il quale, interpellato dal suo monarca sulla spedizione di quella somma,
tremando e sbigottito, gli significò che la duchessa d'Angouleme
l'aveva obbligato a consegnarle i quattrocentomila scudi, comandandogli
il segreto, e rendendosi ella mallevadrice delle conseguenze. Il povero
ministro aveva la polizza segnata dalla duchessa, da cui appariva lo sborso
fattole. Sin qui si scorge un intrigo di corte per fare scomparire Lautrec,
fratello della favorita, a costo della perdita d'una provincia e del sangue
di migliaia d'uomini. Luisa di Savoia, madre del re, e duchessa d'Angouleme,
secondò due personali passioni, l'avidità del denaro, e
la gelosia di comandar sola nell'animo del re suo figlio. Qualche cosa
ancora di peggio manifestò ella poi, quando chiamò mentitore
il Saint-Blancay, e sostenne che que' denari erano un capitale suo, che
se le restituiva. L'orrore poi va al colmo, sapendosi che quell'onoratissimo
vecchio ministro venne impiccato a Monfaucon.
(1523) La duchessa d'Angouleme, nel 1523, aveva quarantasette anni, nudriva
qualche passione pel duca di Bourbon, contestabile di Francia, avendo
essa contribuito a fargli avere degli onori, dovuti alla nascita e merito
suo, ma che il re da se medesimo dati non gli avrebbe, attesa la nessuna
conformità fra l'umore vivace del re e la grave fierezza del duca;
aveva trentaquattro anni il contestabile, allorquando le attenzioni della
vedova duchessa d'Angouleme divennero sì pressanti, che ei lasciò
chiaramente scorgere quanto importune gli fossero. La duchessa era tanto
bella, quant'era possibile all'età sua. Ma ella avea l'anima tanto
bassa e plebea, che pensò di vendicarsene, o di ridurre il duca
a capitolare con lei promuovendogli de' mali. Cominciò a fargli
sospendere le pensioni. Il duca non se ne lagnò, anzi a dispetto
di lei accrebbe il fasto e la pompa, per mostrare quale ei fosse indipendentemente
dai soldi del re. Il contestabile invitò il re alla sua terra di
Moulins, e lo accolse con feste splendissime. La duchessa fece proporre
al contestabile la sua mano; egli sdegnò e derise queste nozze.
Allora la donna in furore, adoperando il cancelliere di Francia Duprat,
uomo nemico del contestabile, creatura della duchessa, e degno di tal
protettrice, intentò una lite a nome del re al contestabile per
ispoglierlo di tutti i suoi feudi, il Borbonese, l'Auvergne, la Marche,
il Foret Beaujolis, Dombres e molte altre signorie. La lite cominciò
collo spogliare il contestabile, e porre i suoi beni sotto sequestro.
Egli era il secondo principe del sangue reale, il primo pel suo merito
e contestabile del regno. Carlo V, che avea l'occhio sulla Francia, colse
il momento opportuno, e, per mezzo del conte di Beaurein, fece al contestabile
le più vantaggiose proposizioni: si trattava d'invadere la Francia,
e colle armi spagnuole dare al contestabile la sovranità delle
terre sue, con l'aggiunta di altre: contemporaneamente Arrigo VIII dovea
invadere altre provincie, sulle quali l'Inghilterra avea delle pretensioni.
Così il re di Francia diventava un principe da non più contrastare
a Carlo V. La trama venne scoperta. Il contestabile, a stento, travestito,
si pose in salvo nella Franca Contea. Il re Francesco avrebbe voluto che
il parlamento di Parigi fosse sanguinario contro i complici, e lo mostrò
tenendo un letto di giustizia, e rimproverando al medesimo le sue mitigate
sentenze. Coloro che credono siffatti intrighi di corte invenzione dei
tempi a noi più vicini, leggano meglio la storia. Così debbe
accadere ogniqualvolta un principe d'animo debole si lasci dominare; e
peggio poi, se da due opposti partiti. La duchessa d'Angouleme voleva
comandar sola. La contessa di Chateau-Briant voleva aver parte al comando.
Il duca di Bourbon, prendendo partito di Carlo V, comparve un fellone.
In fatti egli lo era. Coriolano pure per altra cagione tale si mostrò.
Se non posso far l'apologia del duca di Bourbon, posso almeno compiangerlo;
egli meritava un migliore destino. Gli storici nostri l'hanno insultato
oltre il dovere.
Frattanto gli affari de' Francesi andavano ogni dì peggiorando.
Il presidio francese nel castello di Milano, il giorno 15 d'aprile 1523,
avea ceduto il suo posto, "custodibus partim morbo absumtis, partim
morae taedio inopiaque cibariorum adactis", dice Sepulveda. Non rimaneva
più alcuno spazio occupato dai Francesi, trattone il castello.
Il loro comandante Janot d'Herbouville, signore di Bunon, era morto. Erano
in tutto quaranta Francesi, e trentadue essendone periti, i soli otto
che rimanevano si obbligarono con giuramento di non ascoltare mai proposizione
di rendersi, e diciotto mesi si sostennero. Così almeno ce n'assicura
lo storico Brantome. I Veneziani, vedendo andare così alla peggio
gli affari del re di Francia, informati della indole del re, distratto
dalle occupazioni, immerso ne' piaceri, dominato a vicenda da due donne,
conobbero che erano passati i tempi del buon Lodovico XII, e che l'essere
collegati colla Francia non poteva essere loro di veruno giovamento, anzi
riusciva di molto pericolo, attese le minacce del potentissimo ed attivissimo
Carlo V. Veramente non aveano i Veneziani alcun plausibile pretesto per
mancare alla lega che univali colla Francia; ma la Francia istessa, quattordici
anni prima, colla lega famosa di cambrai aveva insegnato ad essi a sostituire
al codice del gius delle genti quello della convenienza. Il re di Francia
in oltre era minacciato d'una invasione per parte degl'Inglesi. A ciò
si aggiungeva la moderazione che cesare mostrava, consegnando al duca
Francesco Sforza le fortezze acquistate dai Francesi, il che toglieva
dall'opinione l'inquietudine che un monarca troppo potente, occupando
il Milanese, nol ritenesse, e li rendesse confnanti d'una terribile sovranità.
Tutto ciò mosse i Veneziani a collegarsi coll'imperatore, col papa
Adriano, Francesco Sforza, i Fiorentini, i Sanesi e i Lucchesi. S'obbligarono
a somministrare seicento uomini d'armi, altrettanti cavalleggeri e seimila
fanti per la difesa dello stato di Milano; e Carlo V si obbligò
a difendere tutte le possessioni de' Veneziani nell'Italia. Tal confederazione
seguì nel mese di luglio del 1523.
La duchessa d'Angouleme voleva che si ricuperasse il ducato di Milano,
come lo bramava pure il re; ma voleva che l'onore di quest'impresa venisse
accordato all'ammiraglio Bonnivet, e il re al solito accondiscese. Trentamila
fanti e duemila uomini d'armi furono posti in marcia sotto il comando
di Bonnivet, creatura della duchessa d'Angouleme; e questo Bonnivet fu
poi cagione della totale irreparabil rovina de' Francesi e della prigionia
dello stesso re, siccome vedremo. Il vecchio generale de' collegati Prospero
Colonna, non trovandosi forte a segno di sostener l'impeto di quest'armata,
che s'incamminava verso del Milanese, divise ne' presidii i soldati. Diè
Pavia da comandare al layva, per sé tenne il comando di Milano.
Mentre si disponeva questa invasione, il duca Francesco Sforza fu in pericolo
colla sua morte di lasciare più libero il campo alle ragioni del
re di Francia; poiché, venendo egli da Monza a Milano a cavallo,
ed avendo ordinato alle sue guardie di stargli lontane per non soffrire
la polve che alzavano col calpestio, se gli accostò Bonifazio Visconti,
giovine di nobilissima famiglia, e giunto ad un quadrivio, a tradimento
sfoderò una daghetta e tentò di perquotere il duce nella
testa; ma il movimento del cavallo fe' sì che appena leggermente
lo ferì sulla spalla. Questo Bonifazio era "assai domestico
dell'eccellenza del duca", dice Burigozzo, il quale asserisce essere
accaduto il fatto il giorno 21 d'agosto 1523. L'assassino profittò
del velocissimo suo corsiero, e potè salvarsi nel Piemonte. Il
duca ritornossne a Monza. Per Milano si sparse nuova che il duca fosse
morto o moribondo, e ciò produsse una vera desolazione ne' cittadini.
Tre giorni dopo il duca vanne a Milano. L'ammiraglio Bonnivet, senza contrasto
alcuno, entrò nel Milanese, e direttamente si presentò sotto
le mura di Milano per assediarla; ma la plebe era "ardentissima con
l'animo e con le opere contri ai Francesi", dice Guicciardini; e
il Gaillard scrive: "l'infaticable Moron, plus utile au duc de Milan,
que les plus habile généraux, encourageoit et les bourgeois
et les soldats, veilloit à l'approvisionnement de la plce, à
l'avancemente des travaux, et faisoit de plus repentir les Francois de
ne lui avoir point tenu parole". La comparsa de' Francesi sotto Milano
seguì verso la metà di settembre; intrapresero l'assedio;
ma il giorno 12 di novembre cominciò a cadere gran copia di neve,
e continuò un tempo cattivissimo per tre giorni. Le opere che aveano
scavate i Francesi, erano impraticabili a cagione del fango profondo.
Assai malvestiti erano i Francesi, e non era possibile che reggessero
a questa stagione; quindi il giorno 14 di novembre 1523, dopo otto settimane
di assedio, si ritirarono ricoverandosi a Rosate ed Abbiategrasso. Bonnivet
voleva ripassare le Alpi, e per assicurarsi la ritirata propose a Prospero
Colonna una tregua; ma il Colonna non diede retta a tal partito, quantunque
l'ammiraglio francese avesse interposta a favor suo la mediazione di "madonna
Chiara, famosa per la forma egregia del corpo, ma molto più per
il sommo amore che le portava Prospero Colonna"; il quale innamorato
aveva ottanta anni, ed in fatti fra pochi giorni spirò in Milano
il 28 dicembre 1523, essendogli succeduto nel comando il vicerè
di Napoli Carlo Lannoy. Circa a quel tempo venne a Milano il duca Carlo
di Bourbon, già contestabile di Francia, e luogotenente e governatore
del Milanese sette anni prima; indi, in questo stesso anno 1523, col carattere
di luogotenente generale cesareo.
(1524) Rimanevano i Francesi acquartierati ad Abbiategrasso, non senza
molestia della città, la quale riceve una buona parte della provvisione
dal canale detto Naviglio, che passa appunto in Abbiategrasso, quindi
quella via rimaneva intercetta, a meno che non se ne facesse sloggiare
i Francesi. Il duca, amato e riverito da' suoi Milanesi, pensò
a questa impresa. I Milanesi avevano somministrati novantamila ducati
al loro buon principe, che ne avea bisogno per difendrsi. Nel mese di
aprile del 1524 il duca Francesco II, con una scelta squadra de' suoi
Milanesi, marciò ad Abbiategrasso, e impetuosamente per assalto
se ne impadronì, e poco dopo l'ammiraglio Bonnivet ripassò
i monti, e così terminò questa spedizione. Sgraziatamente
però terminò per Milano la vittoria di Abbiategrasso, poiché
eravi la pestilenza; ed i Milanesi vincitori la portarono nella patria,
la quale pestilenza fu una delle più funeste e micidiali. La strage
maggiore seguì nei mesi caldi di giugno, luglio ed agosto del 1524.
La cronaca del Grumello dice: "et fu un pessimo sacco per la città
Mediolanense. Apichata fu peste crudelissima in epsa città per
le robe amorbate d'epso castello portate in dicta cittate, si existima
moressero de le anime octanta millia, et più presto de più
che di mancho"; e Burigozzo fa ascendere la mortalità a più
di centomila persone. Una cronaca originale, che si conserva in Pavia
presso la nota famiglia de' conti Paleari, intitolata: "Relazione
delle cose successe in Pavia dall'anno 1524 al 1528, del molto magnifico
signor Martino Verri", dice che in Milano, per la pestilenza del
1524, morirono "la metà delle persone, e quella durò
per tutto il mese di agosto". Il Sepulveda asserisce che più
di cinquantamila uomini vi perirono. Il Bescapè, nella vita di
San carlo, dice: "ut amplius quinquaginta millia hominum in urbe
interirent, praeter aliso innumerabiles qui in oppidis desiderati sunt".
Questa insigne disgrazia forma una epoca per la storia di Milano. Se per
lo passato la città, ricca, popolata, presentò i suoi cittadini
animosi e non indegni della stima altrui, dopo questo colpo fatale la
città stessa, misera, spopolata, languente, non mostrò più
se non pochi cittadini, oppressi nell'animo, e destinati per le sciagure
de' tempi a invidiare la sorte de' loro parenti uccisi dalla pestilenza.
Così in fatti vedremo; e pur troppo duolmi di dover occupare l'animo
mio delle luttuose avventure che dovrò riferire.
Carlo V per dare al re di Francia di che occuparsi nel suo regno, senza
pensare al Milanese, spedì un corpo d'armati oltre i Pirenei. S'impadronì
di Fonterabia, che si arrese al contestabile di Castiglia Inigo Velasco.
Il comando di quell'armata venne in apparenza affidato al duca Carlo di
Bourbon, e, secondo il trattato, dovevano occuparsi Foret Beaujolis, Bourbonnois,
Auvergne ed altri feudi del duca, il quale voleva rapidamente marciare
a Lione, e così di slancio occupare fa Francia meridionale, promessagli
da carlo V, confidandosi molto nel cuore de' suoi sudditi, sdegnati contro
l'ingiustizia del re, ed affezionati a lui ed alla sua casa. Ma Carlo
V temeva ch'egli, poiché avesse ottenuto l'intento, non si accomodasse
col re. Pescara eragli a fianco, e ne attraversò l'idea. Si progettò
di occupare le fortezze poste alle spiagge, acciocchè l'armata
per mare avesse la sussistenza, la quale sarebbe stata in pericolo di
esserle intercetta, qualora avesse dovuto passare per le gole de' Pirenei.
Si pose l'assedio a Marsiglia. Il re di Francia, animato dall'ammiraglio
Bonnivet, si dispose a portare in persona la guerra nel Milanese. Questo
colpo, che sembrava ardito ed inconseguente, nacque da uno di que' segreti
di Stato, i quali rare volte si indovinano dal pubblico; perché
non sono parti di una sublime politica, alla quale soglionsi attribuire
forse con troppa generosità tutte le risoluzioni de''gabinetti;
e rare volte trovansi scrittori informati o coraggiosi a segno di pubblicarli.
Il segreto di questa risoluzione ci vien palesato dallo storico Brantome
nella vita dell'ammiraglio Bonnivet. Bonnivet fece venire al re la smania
di vedere la signora Clerici, la più bella donna d'Italia, la quale
esso ammiraglio aveva conosciuto ed amata in Milano prima che ne partissero
i Francesi.
L'armata francese, che scese dalle Alpi, guidata dal suo re in persona,
era composta di duemila uomini d'armi, tremila cavalli leggieri, ventimila
fanti, metà francesi e metà svizzeri, seimila fanti tedeschi
e cinquemila fanti italiani. Alla metà di ottobre del 1524 passò
le Alpi. A "tal nuova, quantunque Milano fosse resa deserta dalla
pestilenza, e mancante affatto di ogni provvisione, i pochi cittadini
che rimanevano, offersero al loro principe Francesco II la vita e le sostanze":
ma il duca, seguendo anche il consiglio di Girolamo Morone, suo gran cancelliere,
ringraziò i cittadini, conoscendo che non era più il tempo
di opporsi, e che nella debolezza di allora si sarebbe provocato inevitabilmente
l'ultimo eccidio della patria comune.
Comandò dunque il duca ai Milanesi che non irritassero i nemici,
piegassero ai tempi, e confidassero nell'aiuto della Divinità e
nella fortuna di Cesare. Egli partì da Milano il giorno 3 di ottobre,
e si collocò a Soncino nel Cremonese col vicerè di Napoli
Carlo Lannoy. Il re di Francia entrò nel Milanese il giorno 23
ottobre 1524. Si trattenne a Vigevano, e spinse a Milano il marchese di
Saluzzo. Tutto ciò seguì senza contrasto alcuno e senza
spargimento di sangue, poiché pochi erano gli armati, e il fiore
di questi si ricoverò in Pavia sotto il comando di Antonio Leyva.
Ben è vero che il Bourbon e il Pescara, appena intesero la marcia
del re, che, abbandonando Marsiglia, per le riviere marittime passarono
per aspri colli, e con mirabile celerità volarono con rinforzo
alla difesa del Milanese, e in venti marce, "vicenis castris",
dice Sepulveda, si trovarono a Pavia nel giorno medesimo in cui il re
giunse a Vercelli, cioè il giorno 20 di ottobre anzidetto. I Francesi,
impadronitisi della città di Milano, posero l'assedio al castello,
presidiato da seicento spagnuoli. Dice il Guicciardini che il re dispose
"con laude grande di modestia e benignità, che ai Milanesi
non fosse fatta molestia alcuna". Il povero nostro merciaio Burigozzo,
ch'era testimonio di vista, scriveva che i Francesi "facevano tanto
male per Milano, che non saria possibile a poter narrare, e de robare
et de logiare senza discrezione, et non tanto il logiare, ma volevano
le spese et denari, et andavano in le caxe dove li era buon vino et lo
volevano, et così d'altro", ecc. Pavia era stata riparata;
era luogo assai forte, ed ivi eranvi ricoverati i soldati migliori. Il
re si propose d'impadronirsene, sicuro che, fatto un tal colpo, ei si
rendeva assoluto padrone del Milanese. Ma tale era l'avversione che il
crudele Lautrec aveva stampata negli animi de' popoli per la dominazione
francese, che tutti i cittadini, i mercanti, le donne istesse esponevano
la vita per difendersi, contro de' Francesi; il che si vide prima in Milano,
poi in Pavia; dove, postovi l'assedio dal re, talmente erano amici e confidenti
i cittadini co' soldati, che vivevano come fratelli, s'esponevano ai pericoli,
tutti indistintamente, soldati e cittadini; il denaro de' cittadini era
offerto per accontentare i soldati che non avevano paghe; i mercanti di
panno vestivano i soldati, acciocchè reggessero al freddo, e vedevansi
prodigi di valore e di buona armonia. La cronaca del Verri descrive un
fatto in cui i soli cittadini respinsero i Francesi, i quali da Borgo
Ticino per un sotterraneo erano penetrati al di sopra del ponte levatoio;
e, sbigottiti dalla sorpresa alcuni pochi Tedeschi che vi stavano in fazione,
essendo essi fatti prigioni, i soli cittadini, diceva, si opposero, e
diedero tempo al leyva di accorrere co' suoi, senza di che pavia era presa.
Il Tegio ci racconta che una delle più illustri matrone, "Ippolita
Malaspina, marchesa di Scaldasole, non si sdegnò con quelle belle
e bianche mani portare le ceste piene di terra al bastione, e con parole
ornate e piene di efficaci accendere li animi de cittadini e de' soldati
alla difesa". Tanto male potè fare al suo re il Lautrec da
rendere inespugnabile per l'animosità de' cittadini una città,
che né combattimenti di dominazione accaduti prima e poi, non comparve
mai una fortezza molto importante!
Il re da principio, profittando dell'ardore dei suoi soldati, cercò
d'impadronirsi di Pavia con assalti impetuosissimi e replicati, poi, vedendosi
vittoriosamente respinto e disperando di ottenere la città col
mezzo, si pose a battere le mura coll'artiglieria per diroccarle ed aprirsi
la strada; ma le rovine del giorno si andavano con maravigliosa avvedutezza
riparando la notte dagli assediati, che, con fascine, cementi, travi,
terra, riempivano i vani che s'andavano formando. Fra le altre prove della
sconsigliata condotta del re, vi è quella che mancogli la polve
per continuare nell'impresa, e se il duca di Ferrara non gliela somministrava,
egli era costretto a desistere. Vedendo inutili gli assalti, delusa l'azione
dell'artiglieria, si rivolge al progetto di sviare il Tesino da Pavia,
ed inalvearlo tutto nel Gravellone, col mezzo d'una chiusa posta al luogo
dove si divide il fiume in due correnti. Il progetto fu d'un tenente della
compagnia d'uomini d'arme del signor d'Alencon, che aveva nome Silly baglì
di Caen. Se riusciva il progetto, il re presentava le sue forze dal lato
debole della città, marciando nel letto del fiume; ma una piena
rovescò la chiusa. Si tentò la seduzione; ma in vano. Finalmente
fu costretto il re di cambiare l'assedio in un blocco, ed accontentarsi
di cingere la città, aspettando che venisse costretta a cedere
per mancanza di viveri. Questa è la serie degli avvenimenti presa
nel suo tutto, e questo è il transunto di quanto si raccoglie dal
Tegio, dal Guicciardini, dal Gaillard, dalle cronache del Grumello, del
Verri e d'altri. Ma siccome per le conseguenze un tal assedio si rese
famoso, e forma una epoca memorabilissima, non solo della storia d'Italia,
ma della patria nostra singolarmente, così anch'io ne scriverò
alcune particolarità, di quelle che soglio ommettere né
casi comuni. All'oriente di Pavia, cioè a San Giacomo, a Santo
Spirito, a San Paolo, a Sant'Apollinare stavano i quartieri degli Svizzeri
allo stipendio d' Francesi; a nord stavano i Francesi, acquartierati a
Mirabello e Pantalena; da ponente stavano alloggiati alla badia di San
Lorenzo il re di Francia e il re di Navarra; a San Salvadore alloggiava
il principe di Lorena co' Svevi e Grigioni; a mezzodì finalmente
custodivano i posti, sotto il comando del marchese di Saluzzo e di Federigo
di Bozzolo, gli Italiani misti co' Francesi. Il giorno 8 novembre in tre
luoghi era aperta la breccia, tanto era possente e replicato l'insulto
di grossissima artiglieria! Tentarono dalla parte orientale l'assalto,
e già due insegne francesi erano saliti sopra la rottura piantandovi
le bandiere, e furono bravamente respinti e rovesciati nella fossa. Contemporaneamente
il re diresse l'attacco dalla parte occidentale. Fu impetuosissimo, e
volle accorrervi il comandante don Antonio de Leyva. Vennero scacciati
i Francesi, lasciando più di trecento morti sotto quelle mura.
Né sempre stettero sulla difesa gli assediati; fecero anzi delle
uscite, fra le quali una ne scrive la cronaca di Martino Verri, per cui
s'innoltrarono sino a Campese, e tagliarono a pezzi dodici insegne di
bellissima gente, onde ricoveraronsi nella città carichi di bottino,
trasportando due pezzi d'artiglieria. Il presidio di Pavia era di seimila
soldati.
In mezzo a tai felici successi però i Tedeschi presidiati in Pavia,
mancando di paghe, si mostrarono malcontenti; fecero quanto potevano i
Pavesi radunando denaro per acquietarli. Il Leyva fece battere l'argenteria
sua in forma di denaro, stampandovi il nome proprio; ma non bastavano
questi sforzi a formare una somma corrispondente al loro credito. Il giorno
22 novembre tumultuarono a segno di minacciare che avrebbero aperte le
porte al nemico. Il comandante di questi Tedeschi aveva nome Azarnes,
ed era l'autore principale di tal emozione. Il vicerè Lannoy, informato
di tal pericolo, raccolse a stento tremila ducati d'oro: tant'era la penuria
in cui trovavasi l'armata, e per fargli entrare in Pavia si servì
dell'opera di due semplici fantaccini spagnuoli, i quali cucirono nella
sottoveste questa somma, e comparvero al campo francese come disertori,
ed ivi, colto il momento d'una uscita che fecero gli assediati, s'immischiarono
nella zuffa, e nel ritirarsi che fecero i Cesariani, con essi entrarono
in Pavia, e consegnarono il denaro al Leyva. La fede, l'onore, il nobile
sentimento di questi due uomini mi ha fatto bramare di sapere i loro nomi;
ma in varii scritti da me esaminati ho trovata bensì la virtuosa
azione, ma non i due nomi che meritavano luogo nella memoria de' posteri.
Con questo sebben tenue soccorso, distribuito come un pegno del maggiore
che aspettavasi per una sovvenzione dei Genovesi, si calmarono gli animi;
e pienamente poscia venne ristabilita la tranquillità colla morte
dell'Azarnes, procuratagli, come sembra, dal Leyva, insiodiosamente e
per veleno. I costumi de' tempi si conoscono dai fatti non solo, ma dal
modo ancora col quale gli storici li raccontano. Senza cerun sentimento
di ribrezzo un tale attentato del Leyva si descrive come un rimedio prudentemente
adoperato da lui.
Era impaziente il re d'impadronirsi di Pavia, e lo doveva essere, perché
frattanto s'andavano accrescendo le forze de' Cesariani, siccome vedremo.
Non giovando gli assalti, essendo delusa e riparata l'azione dell'artiglieria,
reso vano il progetto di deviare il Tesino, allontanata la speranza di
ottenere colla fame una città di cui il presidio colle frequenti
scorrerie, per lo più fortunate, riportava nuovi soccorsi, pensò
a vincere corrompendo il comandante. Questa avventura sarà da me
riferita colle parole del Tegio. "Il primo giorno di dicembre il
re di Francia mandò entro la città un frate dai zoccoli,
a cui soleva ogni tanto confessarsi Antonio da Leyva, ad esso Leva che
gli persuadesse a volerli dare la città, che altrimenti esso, con
tutti i suoi, sarebbe stato tagliato a pezzi con tutti li cittadini, e
distrutta tutta la città sino alli fondamenti, non lasciando di
fare tutte quelle crudeltà che si potessero; il che s'egli avesse
voluto fare, oltra molto tesoro, gli avrebbe ancora donate molte buone
entrate nello stato di Milano: la cui ambasciata avendo bene isposta il
frate, Antonio da Leyva, salito in gran collera, proruppe in tai parole:
Se tu non fossi nunzio regale, e tale, come io ho sempre creduto, di buoni
costumi et di santità di vita, io ti farei oggi finire la tua vita
sopra la forca: non pigliar mai più tale impresa; per hora vanne
senza veruna offesa; e dirai alla regia maestà ch'io mi maraviglio
molto di quella, che abbi mandata una tal ambasciata a me, il quale ho
sempre anteposto la fede a qualunque magistrato o dignità ed oro.
Sia lontano da me ogni nome di perfidia e di traditore; ch'io accetterei
piuttosto qualunque sorte di crudel morte. Pavia è di Cesare, e
data al sapientissimo Francesco Sforza, duca di Milano, e quella mi sforzarò
di conservagliela con ogni cura, studio e diligenza, e di rendergliela."
Malgrado però l'industria e il valore degli assediati i viveri
erano assai pochi in Pavia. Si vendevano alla macellerie carni di cavalli
e d'asini. Una gallina si vendeva per un ducato d'oro, le uova si vendevano
venticinque soldi l'uno. Mancava il burro, non v'era lardo né olio;
di che Tegio minutamente c'informa. Tutto soffrivasi da' cittadini però,
anziché ubbidire nuovamente al dominio di un re che Lautrec aveva
reso odiosissimo. In mezzo alla pubblica miseria Matteo Beccaria, il giorno
12 dicembre 1524, insultò l'umanità, dando un convito magnifico
agli ufficiali del presidio. Il Tegio lo racconta come una magnificenza
nel modo seguente. "Lavate prima le mani con acqua nanfa, posto in
tavola primamente focaccine fatte col zuccaro et acqua rosata, e marzapani
et offellette e pane biscotto; lo scalco portò poi fegati arrostiti
di capponi, galline, et anitre, aspersi con sugo di aranci, e lattelli
di vitello, e cotornici e tortore molto grasse, arrostite nello spiedo;
terzo furono portati pavoni e conigli arrosto, e varii piattelli di carne
di manzo trita, condita con zenzero, cannelle e garofani; da poi capponi
e lonze di vitello a rosto, con piattelli di carne di caprioli, con uva
in aceto composta. Poi petti di vitello, capponi a lesso, con tortelle
di formaggio e cinamomo, coperte con bianco mangiare, ovvero sapore composto
con manforle, zucchero e sugo di limone; poco da poi teste di vitello
condite con passule e pignoli, e gran pezzi di carne di manzo, con senape
e ulive; da poi colombi, anatre, lepretti acconci con pere, limoni e aceto.
D'indi a poco furono portati porcelletti arrosto intieri, coperti di salsa
verde; poco appresso papari grassi, cotti con cipolle e pepe; dopo lo
scalco fece portare i latticini e frittelle fatte a modo tedesco; e cose
fatte di cacio di molte sorti. Ultimamente si posero mirabolani, citrini,
kebuli, e cortecce di cedro e zucche confettate. Ho tralasciato il pane
bianco come neve, e vini bianchi e rossi, al nettare o all'ambrosia non
cedenti, di che i Tedeschi maravigliosamente se ne godevano e con grande
stupore. V'erano molti cantori e suonatori di varie sorti con trombe e
tamburi, che rallegrarono molti i convitati, nel qual mangiarono certamente
più di trecento uomini". Oggidì si conosce meglio la
virtù, e meglio s'imparano i doveri sociali. Un pazzo che facesse
altrettanto, avrebbe la esecrazione pubblica, e l'autore che lo riferisse,
non lo farebbe certamente con lode.
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