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Siegfried
Frey
Le guerre milanesi.
La campagna del 1515
Battaglia di Marignano
quarto capitolo, da "Storia
Militare Svizzera" compilata
per incarico del Capo dello
Stato Maggiore Generale,
Sprecher v. Bernegg,
Colonnello-Comandante di
Corpo, da Storici svizzeri
sotto la direzione del
Colonnello M. Feldmann e
del Capitano H.G. Wirz.
2° fascicolo, Berna 1936.
Editore: Commissariato
centrale di guerra
(Intendenza degli stampati).
In deposito presso
A.Arnold, libreria, Lugano.
Edizione italiana del capitano
Celestino Trezzini.
Tipografia Bentelli S.A.
Bumpliz-Berna
|
Andava
da sé che, data la sproporzione esistente fra le forze della Francia
e quelle della lega degli stati confederati, non c'era neppur da pensare
che potesse rimanere incontrastata la situazione, che la vittoria di Novara
aveva recentemente confermata e la campagna di Digione aveva ancora una
volta messa in pieno giorno. Il lavorio diplomatico dei due avversari
non lasciò dubbio alcuno che da entrambe le parti si facevano preparativi
in vista di una nuova guerra. La Dieta di Zurigo aveva già disposto,
il 18 novembre 1513, per la leva di 16.000 buoni e bravi soldati, vietando
in pari tempo l'ammissione di volontari nelle truppe regolari. Ma questa
campagna preinvernale non ebbe luogo.
La morte di Luigi XII, avvenuta il 1° gennaio 1515, e l'incoronazione
di Francesco I, suo cugino e genero, non cambiarono nulla a questa situazione
foriera di guerra. Anzi il nuovo sovrano francese era assillato dal desiderio
di imporsi all'ammirazione de' suoi sudditi con un'azione brillantissima,
ossia colla riconquista dell'alta Italia così tenacemente disputata.
A salvaguardia della situazione esistente sorse in Roma la lega santa,
di cui facevano parte Leone X, l'imperatore Massimiliano, il re Ferdinando
d'Aragona, il duca Massimiliano Sforza di Milano ed i Confederati. In
realtà però tutte queste potenze che costituivano la coalizione
antifrancese, unicamente i Confederati avevano un atteggiamento veramente
risoluto. Leone X soprattutto barcheggiò continuamente tra i due
gruppi avversari.
Le operazione militari incominciarono senza troppa ponderazione. Anche
questa volta mancava un piano sistematico delle operazioni in vista del
successo da raggiungere. Una Dieta, convocata per altre trattande e che
si tenne a Lucerna il 25 aprile 1515, venne informata che la città
di Genova era in procinto di passare alla Francia. Secondo accordi segreti,
di cui tuttavia il duca di Milano ed il cardinale Schinner avevano avuto
conoscenza, Genova doveva rimanere aperta ai Francesi e mettere delle
navi a loro disposizione; la qual cosa, in ogni caso, andava interpretata
come un segno che il piano francese prevedeva l'attacco della Lombardia
anche dalla parte della costa ligure. La Dieta ordinò immediatamente
la leva di 4.000 uomini, i quali dovevano dirigersi prima su Novara, per
poi prendere la via più breve per Genova. Come piano di ripartizione
dei contingenti da fornirsi da ogni cantone doveva servire quello stabilito
in occasione della leva del primo corpo di spedizione di Novara. I cantoni
furono avvertiti di non lasciar partire volontari insieme colle truppe
regolari, dato che il duca sarebbe stato in grado di pagare unicamente
queste ultime. Uri e Lucerna dovevano fornire un capitano ciascuno, come
comandanti generali della spedizione. Il 29 aprile la Dieta di Berna completò
questi ordini, fissando la partenza delle truppe tra il 2 ed il 4 maggio.
Già nel frattempo era giunta anche una domanda di soccorso da parte
del duca. Su questa richiesta si doveva decidere il 13 maggio.
Mentre il duca di Milano chiedeva la leva di altri 8.000 uomini e la Dieta
stava discutendo le disposizioni da prendersi a tale scopo, le trattative
colla Francia non erano ancora completamente rotte. Per la mediazione
della Savoia, erano giunte alla suddetta Dieta di Berna proposte concilianti
da parte del re di Francia, il quale nutriva ancora la speranza di ottenere
dai Confederati che si astenessero dalla guerra dietro l'offerta di importanti
vantaggi, tra cui quello specialmente del pagamento delle somme da loro
continuamente reclamate. Tuttavia i Confederati erano tutt'altro che disposti
a lasciarsi espropriare del ducato di Milano e della contea d'Asti. Il
14 maggio la Dieta riunita in Lucerna deliberò nuovamente circa
la guerra in Lombardia e decise di mettere in piedi un secondo esercito
di 13.000 uomini da mandarsi oltr'Alpi.
Il primo corpo intanto era arrivato in Italia. Invece dei 4.000 uomini
mobilitati per ordine della Dieta, verso il 20 maggio se ne trovavano
riuniti in Novara oltre 8.000. La proibizione delle partenze dei volontari
era rimasta lettera morta. Il duca di Milano fornì 1.500 cavalieri
ed alcuni cannoni a questo primo corpo di spedizione, il quale, secondo
gli ordini della Dieta, avrebbe dovuto mettersi subito in marcia per Genova.
Le tergiversazioni di leone X da una parte e dall'altra l'esigenza di
una parte dei mercenari di voler prima essere pagati impedirono la continuazione
della marcia verso la meta prescritta. Per finire, l'esercito marciò
su Alessandria, dove giunse anche Schinner, e vi prese quartiere. Vi si
trovò pure un rappresentante del re di Spagna nella persona di
Prospero Colonna. I due diplomatici ed i due capitani degli Svizzeri -
il balivo Küng di Lucerna e l'ammanno Imhof di uri - si misero d'accordo
di chiedere alla Dieta l'invio di altri 15.000 uomini per l'attacco contro
Genova, e di portarsi intanto verso le Alpi, a Susa e a Saluzzo, per impedire
all'armata francese, sulla cui preparazione correvano voci di grandi cose,
di sboccare dalle valli alpine nella pianura. Però di quest'ultima
idea non si fece nulla. Una parte delle truppe rifiutò di accettare
questo piano, che dal punto di vista strategico era certamente ottimo.
Queste truppe stavano sotto la funesta influenza della rivolta, che era
scoppiata in Milano contro il duca a cagione delle imposte, ed il soldo
era ciò che le preoccupava più di ogni altra cosa. Così
è che, in seguito a questa discordia tra i soldati, l'esercito
confederato se ne stette inattivo in Alessandria.
Intanto però anche la Dieta era venuta nella persuasione che l'idea
di opporsi ai Francesi prima che sboccassero nella pianura, era giusta.
I deputati dei cantoni riuniti il 12 giugno a Lucerna ordinarono all'esercito
d'Italia di marciare verso Susa ed il Moncenisio, per occupare quei passi.
Il duca doveva accompagnare l'esercito confederato con la sua artiglieria
e per trainare i cannoni gli fu imposto l'uso dei cavalli al posto dei
buoi, da lui fino allora impiegati probabilmente per tale bisogna. Per
assicurarsi il territorio interno, dei commissari confederati ebbero l'incarico
di occupare coi loro soldati i castelli di Milano, Novara e Cremona. In
pari tempo la Dieta si occupò della difesa del territorio nazionale,
che si riteneva minacciato, secondo le notizie pervenute dalla Francia.
Infatti, non solo si parlava di concentramenti di truppe nel Delfinato
e nel Lionese, ma anche dell'intenzione dello stato maggiore francese
di attaccare, attraverso la Borgogna, i baliaggi di Grandson, Orbe e Morat.
bErna, Friburgo e Soletta ebbero, per conseguenza, l'incarico di prendere
le misure necessarie per la difesa di queste chiavi della Svizzera occidentale.
Anche Yverdon doveva essere occupato e bisognava inoltre persuadere il
balivo di Neuchâtel e gli amici di Bienne a prendere identiche disposizioni.
In fine, furono decretate le misure necessarie perché la leva dei
14.000 uomini già previsti potesse partire al primo segnale. Fu
poi deciso di rinunciare all'offensiva e di attendere invece l'attacco
dei Francesi, a combattere il quale venne prevista la chiamata sotto le
armi di 30.000 uomini.
Frattanto era arrivato all'esercito d'Italia un uomo di grande energia:
Alberto vom Stein (della Pietra), di Berna. Costui seppe convincere così
bene i capitani confederati, che costoro ordinarono finalmente alle loro
truppe di mettersi in marcia. Il 22 giugno l'esercito prese la via di
Asti ed il 27 partì per Chieri, posto a breve distanza all'est
di Torino.
Il giorno dopo la festa di San Giovanni Battista, ossia il 25 giugno,
venne concentrato il secondo corpo di spedizione, la cui mobilitazione
era stata decisa il 12 giugno. Un esercito di 13.380 uomini si mise in
cammino per l'Italia. Questa volta Zurigo fornì 1.000 uomini, Brna
1.500, Sargans 100, il Rheintal 200, Turgovia 600, la città colla
contea di baden 180, Bremgarten 150, Mellingen 100, Grigioni 1.500, Vallese
2.000, l'abate di San Gallo 600, la città omonima 100. L'esercito
attraversò le Alpi in due divisioni. Il gruppo occidentale, di
cui il grosso era fornito da Berna, valicò il Gran San Bernardo,
calò nella valle d'Aosta e per Ivrea sboccò nella pianura.
Il grosso dell'esercito invece prese la via più alla mano del San
Gottardo e marciò su Vercelli. Da questa città spedì
al gruppo di Berna l'ordine di raggiungerlo per marciare insieme contro
i rivoltosi di Milano. Gli ambasciatori del Papa, del re di Spagna e del
duca di Milano, comparsi a Ivrea, insistevano presso i Confederati, perché
ratificassero la lega santa, assicurando loro che in seguito non sarebbero
mancati danaro ed aiuti. Questa cosa indusse l'esercito a mettersi in
marcia verso le Alpi. Il primo corpo di spedizione, che si trovava nei
dintorni di Torino, si riunì al secondo. A partire da questo momento
non si ebbe che un solo esercito, senza però che si arrivasse all'unità
d'intendimenti. Non si ebbe una occupazione sistematica di tutti i passi.
Le truppe di Berna e di Zurigo erano accampate in Pinerolo, quelle degli
altri cantoni presero i loro quartieri nei dintorni di Chieri, i volontari
occuparono Saluzzo a sud. Verso il 13 luglio l'esercito confederato stava
riunito nel triangolo costituito dalle tre località suindicate.
Se tutte le truppe fossero state concentrate in alcune poche località,
il vettovagliamento avrebbe certamente creato delle difficoltà.
Per questa ragione i contingenti furono ripartiti fra i vari villaggi.
Il morale dell'esercito già in quei primi giorni era tutt'altro
che buono. Regnava fra le truppe un generale malcontento a causa del mancato
pagamento del soldo. Che l'esercito si fosse avanzato nel Piemonte, era
cosa di cui un grandissimo numero di soldati non potevano capacitarsi;
senza dubbio essi pensavano che le contribuzioni e le scorrerie a scopo
di bottino vi erano assai meno facili che nei territori del debole duca
di Milano, il quale era legato mani e piedi coi Confederati per la prospera
come per l'avversa fortuna. Assai ridotte erano anche le possibilità
che i soldati avevano di rifarsi direttamente sugli abitanti del mancato
pagamento del soldo. Il malcontento delle truppe si fece talmente acuto,
che il 24 luglio si ebbe in Moncalieri, a breve distanza a sud di Torino,
un aperto ammutinamento. Gli Svittesi ed i Glaronesi assalirono nel suo
quartiere il capitano bernese Alberto vom Stein. Essi erano irritati in
modo affatto particolare contro di lui, perché era stato lui, dicevano,
a volere l'occupazione degli sbocchi dei valichi alpini. Sembra che questo
piano strategico sia stato voluto soprattutto dai cantoni urbani, mentre
i campagnoli avrebbero preferito recarsi nel Milanese. Sui motivi di queste
divergenze dobbiamo limitarci a semplici supposizioni. E' possibile che
quell'idea grandiosa di portare la guerra su di un teatro così
lontano non andasse troppo a genio ai capitani ed ai soldati dei piccoli
cantoni; può anche darsi che in loro il bisogno di rifarsi del
mancato pagamento del soldo mediante il bottino estorto colla violenza
abbia influito più di ogni altra cosa.
Il 1° agosto i capitani si riunirono in consiglio di guerra in Moncalieri.
Essi presero conoscenza della distribuzione delle truppe nella zona dei
passi alpini, che mettevano nel Piemonte. Secondo questo rapporto, 10.000
uomini stavano in Rivoli e in Avigliano, dei quali 2.000 Bernesi che già
in antecedenza vi erano stati acquartierati, e 2.000 uomini ivi spediti
ulteriormente dalla strada di Susa. Pinerolo era occupata da 6.000 uomini.
Le truppe dei quattro Waldstätten, di Zugo e di Glarona erano accampate,
diremo così, in seconda linea in Vigone, a sud-est di Pinerolo.
Susa, che era la località più importante al confluente delle
due strade provenienti dal Moncenisio e dal Fréjus, era tenuta
da 2.500 uomini. Finalmente 1.000 soldati si trovavano in Bricherasio,
a sud di Pinerolo. Per completare lo sbarramento verso il sud il consiglio
di guerra del 1° agosto ordinò al corpo di volontari in Saluzzo
di occupare i passi, che mettevano su questa città, e di far preparare
le posizioni dai contadini della regione. I volontari, veramente, da quando
si trovavano in Saluzzo, avevano fatto di tempo in tempo delle scorrerie
per estorcere contribuzioni. Ma ora ricevevano un compito, che andava
preso sul serio, se si voleva che la chiusura dei passi tornasse veramente
utile.
Il rapporto e l'ordine del consiglio di guerra del 1° agosto potrebbero
indurre a credere che l'accordo sull'idea della guerra manovrata fosse
stato realizzato. Purtroppo non era così. I Confederati erano lontanissimi
dalla massima che, una volta presa una decisione, è necessario
mantenerla e cercare con coerenza di portarla a compimento. Presa una
decisone invece, essi si rimettevano continuamente in discussione. Così
è che già il 7 di agosto le truppe di Lucerna, Uri, Svitto,
Unterwalden, Zugo, Glarona e Appenzello volevano ritornare nel ducato
di Milano. I cantoni gottardisti propriamente detti, che erano poi i principali
protagonisti della politica italiana, insistevano per l'occupazione di
quanto stava loro unicamente a cuore. Probabilmente essi non riuscirono
mai a ben comprendere l'idea che si potesse difendere il ducato fuori
de' suoi confini. I Bernesi, al contrario, erano i propugnatori del piano
di difesa alle falde delle Alpi e facevano valere che era assai più
facile, anche con poche truppe, di battere il nemico finchè si
trovava nelle valli alpine. In conformità di questo piano, si finì
per fare il 9 agosto un nuovo raggruppamento delle truppe. I contingenti
di Zurigo, Lucerna, Uri, Svitto, Unterwalden, Zugo, Glarona e Appenzello
dovevano concentrarsi in Pinerolo; quelli di Berna, Basilea, Friburgo
e Soletta, a Susa; i volontari, nella regione di Saluzzo.
Intanto, come sicure notizie e dicerie meno precise l'avevano fatto sapere,
l'esercito francese era andato radunandosi nella regione di Lione; distaccamenti
avanzati si trovavano nelle vicinanze di Grenoble. Il 12 luglio Francesco
I in persona raggiunse l'esercito. Egli affidò il comando dell'avanguardia
al contestabile di Borbone, con Trivulzio e Pedro di Navarra in sott'ordine.
Il re in persona si pose alla testa del corpo principale. L'avanguardia
era sotto gli ordini del duca d'Alan?on. Sapendo che il Moncenisio ed
il Monginevro erano sbarrati dagli Svizzeri, dietro consiglio di Trivulzio,
Francesco I scelse il passo della Maddalena o di Argentera per calare
in Italia. Una commissione di periti aveva visitato minuziosamente il
passo, prima che le truppe vi fossero avviate. Distaccamenti del genio
lavorarono a riattare la strada per renderla più praticabile. Per
ingannare i Confederati sulla via prescelta, il comando francese spedì
deboli reparti di truppa sul Moncenisio e sul Monginevro. Mandò
poi un altro corpo per via di mare a Genova, coll'incarico di prendere
la Lombardia dal sud. Francesco I col grosso dell'esercito si pose in
marcia per la valle della Durance e al principio di agosto aveva già
lasciato Grenoble dietro le sue spalle. Dalla suddetta valle l'esercito
si diresse verso Saint-Paul-sur Ubaye, situato nella valle di Barcelonnette,
e di là, attraverso il passo già esplorato in antecedenza,
scese nella valle della Stura. Durante la traversata delle Alpi l'avanguardia
non aveva avuto soltanto il compito di coprire la marcia del grosso, ma,
per quanto le fu possibile, dovette lavorare al riattamento della strada
per facilitare l'avanzata del corpo principale. Questa marcia dell'esercito
francese, in sostanza, era rimasta nascosta ai Confederati.
IN tal modo dunque, verso la metà di agosto, venne a trovarsi nel
Piemonte un'armata, come fino allora i Francesi non ne avevano mai mandato
nell'alta Italia. Costituivano questo apparato guerresco di primo ordine,
che era comandato dai migliori capitani: 2.500 lance a sei uomini, 20.000
lanzichenecchi, 10.000 tra Navarrini, Baschi e Guasconi, 8.000 uomini
di fanteria francese e 3.000 pionieri. Un esercito di circa 55.000 uomini
stava a disposizione di Francesco I, il quale era deciso a mettere una
buona volta un termine all'eterna lotta tra Francesi e Confederati per
il possesso del ducato di Milano. Un parco di 74 cannoni di grosso calibro
sembrava fatto apposta per rinfrescare ai Confederati la memoria delle
terribili esperienze fatte a Novara. Però non fu possibile di trasportare
questa artiglieria attraverso il passo di Argentera. Essa valicò
lentamente le Alpi, passando per il Monginevro.
Il primo contatto fra i due eserciti avversari avvenne, allorquando un
distaccamento dell'avanguardia francese sorprese la cavalleria pontificia
che stava coi Confederati. Fra la sorpresa generale, i Confederati erano
venuti a sapere da notizie vaghe che l'esercito francese aveva scelto
per calare in Italia un passo alpino assai più a sud. Spedirono
allora in perlustrazione fra Pinerolo e Saluzzo la cavalleria pontificia
- l'unica di cui essi disponevano - forte di 1.500 cavalli comandati da
Prospero Colonna. Il 14 agosto questo distaccamento di esploratori si
trovava in Villafranca, a sud-est di Pinerolo, allorquando un forte reparto
volante di truppe francesi penetrò improvvisamente, fra la sorpresa
generale, nel piccolo borgo e dopo un breve combattimento costrinse Prospero
Colonna alla resa. Questo primo e rapido successo produsse nei due eserciti
avversari una profonda impressione morale. Co' prigionieri e col bottino
il distaccamento vincitore raggiunse quindi il corpo di avanguardia, da
cui era partito. All'annuncio di quello scontro, il comando confederato
aveva immediatamente spedito a Villafranca una colonna di soccorso forte
di circa 4.000 uomini; ma quando i Confederati vi giunsero, il nemico
si era già eclissato e dovettero accontentarsi del saccheggio del
borgo, il cui prodotto, peraltro, non venne da loro disprezzato.
Lo volessero o no, i Confederati dovettero allora decidersi a ritirare
le loro truppe dalla vasta linea lungo gli sbocchi alpini situati più
a nord. Tutte le truppe vennero concentrate a Pinerolo. Una falla nel
sistema era bastata per mandare a monte tutto il piano delle operazioni.
Ora i Confederati correvano pericolo di essere presi alle spalle dal sud
e di trovarsi nella necessità di accettare la battaglia, mentre
erano ancora ripartiti in vari settori. Fallito il tentativo d'impedire
ai Francesi il valico delle Alpi e di sboccare nella pianura, non rimanevano
ai Confederati che due possibilità: o marciare con tutte le forze
unite verso il sud per attaccare il nemico, o ritirarsi verso la loro
base strategica, ossia nel ducato di Milano. Le gravi discordie scoppiate
al momento in cui si trattava di decidere l'occupazione dei passi alpini,
lasciano supporre che la prima eventualità non venne neppure ventilata,
per quanto essa, data la nuova situazione, non sarebbe stata che la conseguenza
logica di quella prima decisione. Il morale delle truppe, che si trovavano
sotto le armi già da troppo lungo tempo - per una campagna fatta
per proprio conto - era straordinariamente basso. Vi contribuì
pure l'irritazione contro la lega per i mancati aiuti. E' possibile, infine,
che il fatto di trovarsi nell'estrema regione occidentale dell'alta Italia,
ossia in un paese non troppo ben conosciuto, abbia avuto la sua influenza
su quella condotta svogliata tenuta dall'esercito confederato. Senza dubbio
queste disposizioni morali non erano completamente ignorate dall'esercito
francese. Approfittando dunque di questo stato di cose e speculando sulla
solita cupidigia dei capitani e dei soldati svizzeri, il 17 agosto Francesco
I fece ai Confederati le prime offerte di pace, mentre essi si trovavano
ancora in Rivoli. Il re offriva di dar loro soddisfazione su tutti impunti,
meno però su quello per il quale precisamente la guerra era scoppiata:
il ducato di Milano doveva restare alla Francia. Le proposte francesi
non vennero respinte, anzi i due avversari s'accordarono per continuare
le trattative in Vercelli. A tale scopo i Confederati rilasciarono un
salvacondotto fino alla detta città ai plenipotenziari regi.
Implicitamente, veniva decisa con questo anche la ritirata in Lombardia.
L'esercito confederato si divise in due gruppi, passò davanti alla
capitale del Piemonte e si portò a Settimo. Da questa città
marciò su Chivasso che, come Settimo, fu messo a sacco. Piegando
poi fortemente a sinistra, esso si diresse a nord, verso Ivrea, che offrì
spontaneamente la resa. Siccome difficilmente si può supporre che
con questa marcia verso il nord i capitani abbiano inteso assicurarsi
la ritirata per la valle d'Aosta ed il Gran San Bernardo, questo ripiegamento
su Ivrea rimane inspiegabile. Il 22 agosto però, alla ripresa della
marcia, l'esercito confederato si diresse nuovamente verso il sud. Il
corpo maggiore si portò su Vercelli; un gruppo minore, costituito
in maggior parte dai contingenti dei cantoni primitivi e dai Lucernesi,
passò a nord di questa città e si recò direttamente
nel ducato di Milano. Lasciando Vercelli, il primo gruppo si suddivise
in due colonne. I contingenti delle città di Berna, Friburgo, Soletta
e Bienne andarono dapprima a Novara, dove abbandonarono l'artiglieria
che avevano trascinato fin là, e quindi ripiegarono su Arona. Questa
rapida ritirata verso le Prealpi dà veramente un certo credito
all'ipotesi che già la digressione su Ivrea era stata concepita
come un avviamento verso il passaggio delle Alpi. Intanto le truppe dei
cantoni "gottardisti" costituenti la colonna settentrionale
erano penetrate nell'interno del ducato di Milano. Ma verso la fine del
mese anche questo gruppo si avviò verso il nord e precisamente
un distaccamento andò a Varese e un altro a Sesto Calende. Le truppe
dei cantoni occidentali, partite in antecedenza, continuarono la loro
ritirata, portandosi da Arona a Domodossola; e con questa marcia diedero
ancor meglio a vedere che loro intenzione era di ripassare definitivamente
le Alpi.
Intanto che i suoi negoziatori stavano fin dal 27 agosto trattando coi
plenipotenziari confederati, verso la fine del mese Francesco I era entrato
lui pure col suo esercito nel ducato di Milano. La maggior parte delle
città si arrese senza opporre resistenza; già il 28 agosto
cadeva nelle mani dei Francesi anche il castello di Novara. Lasciata Novara,
il grosso dell'esercito di Francesco I passò il Ticino, puntò
direttamente a nord fino a Turbigo, ma per riprendere nuovamente la marcia
su Milano. Il 31 agosto esso arrivava a Boffalora. La metropoli offrì
la resa, ma Francesco I, che conosceva la volubilità dei Milanesi,
non volle fidarsi troppo. Difatti, un distaccamento francese partito per
Milano agli ordini di Trivulzio fu ostilmente accolto dalla popolazione
e dovette ritirasi. Anzicchè impegnare il grosso dell'esercito
contro la città, Francesco I marciò lungo la riva sinistra
del Ticino e per Abbiategrasso, Binasco e Lacchiarella si portò
verso levante, a Melegnano.
La ragione di questa marcia a sud e a sud-est di Milano sta nell'entrata
in scena delle altre forze impegnate in questa guerra di coalizione. I
Francesi volevano operare la loro congiunzione coll'esercito veneziano,
il quale dalla regione di Verona marciava verso l'interno del ducato.
Il 10 settembre i Veneziani erano arrivati a Lodi e venivano così
a trovarsi ad una giornata di marcia dall'esercito di Francesco I, che
era giunto in quel medesimo giorno a Melegnano. Però la marcia
dei Francesi attorno a Milano non aveva soltanto operato la riunione degli
eserciti della coalizione franco-veneta; essa preveniva nello stesso tempo
la congiunzione degli Svizzeri colle truppe pontificie e spagnole, che
erano state concentrate in Piacenza. Schinner, infatti, che era la mente
direttiva di tutta la politica svizzera in Itali, era accorso con un piccolo
gruppo di cavalleria a Piacenza per affrettare la marcia degli alleati
e operare la loro unione coi Confederati.
Intanto che nell'esercito d'Italia regnava il disorientamento e la demoralizzazione,
tanto che, se la ritirata non era ancora avvenuta, lo era unicamente perché
le trattative di pace non avevano fino allora dato alcun risultato definitivo,
nella Confederazione i consigli davano maggior prova di coerenza in punto
alla continuazione dell'incominciata impresa. In seguito alle notizie
avute sull'invasione dell'alta Italia da parte delle truppe francesi,
la Dieta di Zurigo ordinò il 20 agosto la leva di un terzo corpo
di spedizione. I cantoni prossimi ai passi alpini ebbero l'ordine di far
partire immediatamente i loro contingenti; le truppe degli altri cantoni
dovevano mettersi in marcia il sabato seguente. Novara fu scelta come
piazza di riunione di questo terzo esercito. Berna fornì 4.000
uomini, Zurigo 2.000, Sargans 150, il Rheintal 200, Turgovia 600, Baden
150, Argovia 150, Mulhouse 100, Grigioni 2.000, Vallese 3.000, l'abate
di San gallo 600, la città omonima 100. I contingenti occidentali
lasciarono Berna già il 25 agosto e con cinque giornate di marcia
attraverso il Grimsel e il passo del Gries giunsero a Domodossola. Quivi
le truppe s'incontrarono coi contingenti di Berna, Friburgo, Soletta e
Bienne appartenenti al primo ed al secondo esercito che, partiti da Arona,
erano sul loro ritorno, ed ebbero da costoro la notizia essere il loro
aiuto perfettamente inutile per il fatto che nel frattempo la pace col
re di Francia era stata conclusa in Vercelli. I cantoni orientali diressero
le loro truppe parte per il San Bernardino e parte per il San Gottardo
unitamente alle truppe dei cantoni centrali. La loro avanguardia arrivò
a Varese il 2 settembre.
L'arrivo delle nuove truppe mutò di colpo le disposizioni di quelle
che stavano a Varese. Esse decisero di riprendere la marcia in avanti.
Effettivamente il 3 settembre si mettevano nuovamente in moto per Milano.
L'avanzata però si compì con lentezza straordinaria, giacchè
queste truppe arrivarono a Monza soltanto il 6 settembre, dove vennero
raggiunte dal distaccamento che nella sua ritirata si era fermato a Sesto
Calende.
Come fu detto, già fin da quando era in marcia nella regione delle
Alpi piemontesi, Francesco I aveva fatto ai Confederati proposte di pace.
Però le trattative propriamente dette erano incominciate il 27
agosto tra i plenipotenziari dell'esercito confederato e quelli del re.
I Confederati erano probabilmente pronti a tutto, mentre Francesco I non
avrebbe badato a spese, pur di riuscire a disfarsi di loro. Egli offrì
900.000 scudi per la cessione del ducato di Milano. Durante le trattative
fu parola perfino la retrocessione dei territori del Ticino meridionale,
che i Confederati avevano conquistati nel 1503 e nel 1512-1513. Le trattative
vennero riprese a Gallarate, dopo che i plenipotenziari delle due parti
ebbero preso contatto coi rispettivi committenti e coi loro uomini di
fiducia. L'8 settembre si giunse ad un accordo, che conteneva sostanzialmente
le seguenti clausole: abbandono al re di Francia del ducato di Milano
colla contea di Asti e la signoria di Genova; cessione di Locarno, Lugano
e Domodossola colla valle rispettiva contro versamento di 300.000 scudi;
pagamento da parte del re di altri 300.000 scudi quale indennità
per le spese di guerra e dei 400.000 scudi dovuti dalla Francia fin dal
tempo della spedizione di Digione. Una clausola speciale assicurava al
duca Massimiliano un'esistenza scevra da qualsiasi preoccupazione finanziaria,
in quanto che la corona di Francia gli assicurava una pensione annua col
titolo di duca di Nemours. Con questa pace l'esercito confederato rinunciava
per vile moneta a quegli interessi italiani, per i quali tanto sangue
svizzero era stato versato. Come se ciò non bastasse, esso trafficava
anche i territori che stavano già nel possesso definitivo della
Confederazione e che, per la loro posizione avanzata verso il sud, avevano
un valore strategico impareggiabile; senza neppure riflettere che in tal
modo metteva a repentaglio anche il più antico possedimento fra
i detti territori meridionali e la catena delle Alpi.
Il re fu lietissimo di questo esito della guerra ottenuto senza colpo
ferire. Giacchè, a malgrado della superiorità del suo esercito,
per le esperienze fatte egli non era senza timore circa l'esito di una
battaglia campale contro i Confederati. Liberato dal nemico principale,
gli altri nemici, privati dell'aiuto degli Svizzeri, non potevano più
fargli paura. Per conseguenza, Francesco I si accinse ad impadronirsi
anche della metropoli lombarda per mettere simbolicamente come un punto
fermo alla campagna con l'occupazione di Milano. Intanto fece di tutto
per riunire la somma necessaria per il primo acconto da versarsi ai Confederati.
Il suo esercito lasciò Marignano - l'odierno Melegnano - e si accampò
a Santa Brigida, oggi Santa Brera, a nord della strada, che va da Milano
a Lodi. Il 12 settembre l'avanguardia si trovava già a San Giuliano.
Ma il 13 settembre arrivarono al campo francese notizie, secondo le quali
i Confederati, anzicchè ritirarsi, se ne stavano ancora in Milano
e non accennavano affatto ad abbandonare la guerra.
Effettivamente, il 10 settembre i gruppi della Svizzera centrale ed orientale
avevano lasciato Monza, dove erano arrivati il 6 dello stesso mese in
provenienza da Varese e da Sesto Calende, per portarsi a Milano. Erano
stati accolti festosamente dal duca e si erano acquartierati in città.
Sembra che sia stata l'influenza di Schinner, ritornato da Piacenza, quella
che indusse le truppe non solo a non far caso alcuno degli accordi di
Gallarate, ma a riprendere la campagna senz'aspettare le stipulazioni
definitive dei plenipotenziari. Nell'esercito l'unità di vedute
era favorita dalla circostanza che le truppe dei cantoni occidentali,
simpatizzanti per la Francia, erano ormai lontane e stavano attendendo
a Domodossola la conclusione della pace per prendere definitivamente la
via del ritorno. Ma quando le truppe furono in Milano, rinacquero di bel
nuovo le esitazioni. Zurigo e Zugo erano per la ritirata; i Waldstätten
e Lucerna invece non volevano sentir parlare di una pace, che metteva
a repentaglio tutte le conquiste della loro vecchia politica sui passi
alpini ed i territori al sud delle Alpi. La mattina del 13 settembre fu
tenuto consiglio di guerra nel castello. Gli irremovibili campioni della
politica attiva in Italia rimasero in minoranza. I loro oppositori si
disposero a partire.
Fu a questo punto, che Schinner provocò la battaglia. Egli sapeva
che l'unico mezzo che gli rimaneva per trascinare i Confederati al combattimento,
era quello di impegnare la lotta; allora tutti i Confederati si sarebbero
gettati come un sol uomo nella mischia per sostenere la loro causa. Il
calcolo di Schinner non fallì. Egli seppe guadagnare alla sua idea
Arnoldo di Winkelried, comandante della guardi di corpo del duca, e lo
persuase ad assalire i Francesi colle sue truppe e con quegli elementi
degli altri distaccamenti, che erano impazienti di battersi. Verso l'ora
di mezzodì del 13 settembre la piccola colonna uscì da una
delle porte orientali di Milano e marciò sugli avamposti francesi,
che erano già arrivati in vista delle mura della città.
Wilnkelried venne in breve alle mani con uno squadrone di cavalleria francese.
La notizia del combattimento arrivò in città, mettendola
in subbuglio. La voce che una battaglia era in corso, si diffuse per tutta
Milano come un baleno. Le truppe, delle quali una parte era già
sul punto di mettersi in marcia per il ritorno, furono parzialmente pervase
dalla frenesia di combattere. Gli impazienti si precipitarono verso le
porte della città. Dai campanili delle chiese le campane suonavano
a martello. Alla fine, le truppe furono disposte in colonna di marcia
ed i contingenti si portarono ad uno ad uno fuori delle mura, dove nel
frattempo era cessato il combattimento impegnato colla cavalleria nemica,
in seguito alla ritirata dello squadrone mandato in ricognizione. Ma intanto
i Confederati si trovavano in pieno assetto di guerra fuori della città.
Data la logica appassionata di un esercito ordinato in battaglia, non
c'era più che una sola possibilità: la marcia in avanti.
La battaglia era, si può dire, incominciata.
Gli eserciti, che stavano per affrontarsi, non erano eguali di forza.
Francesco I disponeva di un'armata di oltre 30.000 uomini, di cui il nerbo
era costituito dai lanzi, i quali mettevano in campo non meno di 20.000
uomini. L'armata francese disponeva inoltre di una numerosissima cavalleria,
contando essa 2.500 lance. L'artiglieria poi aveva 60 pezzi di grosso
calibro. L'esercito confederato, i cui effettivi è assai più
difficile determinare, era formato da circa 20.000 uomini. Questa cifra
non pretende affatto all'esattezza, dato che gli effettivi delle truppe
ritiratesi dal Piemonte verso nord non sono conosciuti esattamente e si
possono calcolare soltanto in modo approssimativo. Una cosa assolutamente
certa invece è che l'esercito confederato era così sprovvisto
di cavalleria e di artiglieria, che queste armi non possono aver avuto
alcuna parte rilevante nello svolgersi della battaglia. E' parimenti certo
che l'esercito francese aveva non solo una forte superiorità numerica,
ma anche la superiorità dell'artiglieria.
L'esercito di Francesco I, ripartito in tre linee, occupava il terreno
fra lo stradone Milano-Lodi ed il corso d'acqua della Roggia Nuova, che
è un braccio naturale del Lambro. Il terreno non è piano.
Il triangolo compreso fra la strada, Santa Brera e Rovido-Zivido si abbassa
una prima volta verso la Roggia con un declivio in parte assai pronunciato.
A mezzo chilometro a nord-ovest, davanti a Santa Brera, si stende un'ondulazione
del terreno, che toglie questo abitato alla vista di chi viene da Milano.
Per rispetto alla linea di marcia dei Confederati, questa ondulazione
era alla sua volta coperta da una seconda.
Il dispositivo francese era il seguente: l'avanguardia, comandata dal
conestabile di Borbone, era allineata verso Milano, a San Giuliano; il
re in persona comandava il corpo di battaglia disposto attorno a Santa
Brera; la retroguardia, agli ordini di d'Alan?on, stava assai indietro,
verso Melegnano. Il corpo principale e la retroguardia si erano trincerati.
Per le fortificazioni di campagna erano stati utilizzati anche i numerosi
piccoli corsi d'acqua. E' altresì possibile che il terreno fosse
allora, come oggi, coperto di numerose piantagioni disposte soprattutto
lungo i canali d'irrigazione.
I Confederati marciavano disordinatamente sullo stradone Milano-Lodi.
Quando giunsero nelle vicinanze di San Donato, abbandonarono lo stradale
e s'inoltrarono a sinistra nella campagna, senza dubbio perché
si erano accorti della vicinanza del nemico. Quando incontrarono l'avanguardia
francese, s'era fatto sera e già scendeva il crepuscolo sui giardini
e sulle praterie. Data l'ora tarda, una parte dei capitani voleva rimandare
l'attacco all'indomani. Ma come trattenere quella massa in movimento proprio
in faccia al nemico? Essa chiedeva tumultuosamente l'attacco. Fu dunque
stabilito l'ordine di battaglia. Vennero formati tre corpi e disposti
sulla medesima linea. All'estrema sinistra stava la poca artiglieria con
una speciale copertura. Werner Steiner, ammanno di Zugo, comandava l'avanguardia,
mentre il borgomastro zurigano Röust stava alla testa del corpo di
battaglia. Da ambe le parti il combattimento fu aperto dall'artiglieria.
Fatta la tradizionale preghiera, i Confederati si slanciarono sul nemico.
Non ostante che l''rtiglieria francese facesse strage nelle loro file,
essi riescono a sfondare la prima linea dell'avanguardia nemica. Allora
i comandanti dell'avanguardia, Trivulzio ed il duca di Borbone, lanciano
sugli Svizzeri la cavalleria pesante, che ne costituiva la seconda linea.
Essa riesce a contenere l'impeto dei Confederati. Ma solo per breve tempo,
chè anche la cavalleria, la quale valorosamente mena colpi furiosi,
deve cedere davanti all'irruenza dei Confederati, che avanzano e incalzano
incessantemente. L'avanguardia francese è così sbaragliata
e gli Svizzeri non si fermano, ma l'inseguono nella sua ritirata.
A questo punto entrano in azione da una parte e dall'altra i corpi di
battaglia. Da una parte e dall'altra i due ordini di truppe si dispongono
su una sola linea, allungando in tal modo il terribile fronte. Il sopraggiungere
della notte non valse a dar tregua al combattimento. Al chiaror della
luna continuò la mischia furiosa. Circa le ore dieci anche la luna
cessò di rischiarare colla sua luce scialba quella carneficina,
ma fu solo verso la mezzanotte che la battaglia ristette. La situazione
era favorevole per i Confederati: i Francesi erano stati respinti, l'avanguardia
era sbaragliata ed anche il corpo di battaglia aveva dovuto cedere terreno.
La notte fu fredda. Sfinite per la marcia e per l'aspro combattimento,
le truppe passarono la notte là dove le tenebre avevano separato
i combattenti. I Confederati soffrirono per la fame e molto più
ancora per il freddo, perché guadando i profondi fossati, essi
si erano inzuppati fino alle ossa. Per questo soltanto in modo imperfetto
la notte potè essere utilizzata per la riorganizzazione delle truppe.
Dei reparti si erano sbandati; delle sezioni avevano perduto il contatto
colle loro unità rispettive. Certi elementi dubbi cercarono di
prendere il largo e approfittarono dell'evacuazione dei feriti per abbandonare
essi pure il luogo della carneficina e per andare a rifocillarsi a Milano.
In generale però, i due eserciti rimasero sul campo di battaglia
per conservare i vantaggi ottenuti.
Era appena spuntata all'oriente l'alba del 14 settembre, che già
la battaglia veniva ripresa. Dall'una come dall'altra parte l'ordine di
battaglia non era ancora stato completamente ricostituito. L'avanguardia
francese battuta il giorno innanzi formava una sola linea col corpo di
battaglia. Quest'ultimo tuttavia era disposto in modo che la fanteria
e l'artiglieria stavano schierate innanzi, mentre la cavalleria si trovava
un po' più indietro. L'urto dell'avanguardia confederata si spezzò
contro la posizione francese. Essa indietreggiò e riparò
presso il corpo di battaglia, che stava schierato più a destra.
Un secondo attacco andò fallito come il primo. Anche stavolta i
Confederati vennero ricacciati indietro, tanto che lo sgomento minacciò
di impadronirsi delle truppe.
Contemporaneamente, un terzo corpo confederato, costituito dalla retroguardia,
tentò la medesima manovra di aggiramento, che nel 1513 aveva data
la vittoria a Novara. Questa colonna marciò a destra per girare
la battaglia in corso e portarsi contro la retroguardia francese, che
si disponeva ad avanzare per combattere sull'ala sinistra dell'esercito
di Francesco I. Anche colà, come sul fronte principale, si combattè
a lungo senza una decisione. Quand'ecco comparvero nella mattinata gli
alleati veneziani di Francesco I, agli ordini di Alviano. Il generale
veneto, che fin dal 10 settembre si trovava a Lodi col suo esercito, già
il giorno prima si era spinto innanzi ed era venuto a trovare il re; in
tale occasione aveva saputo della sorprendente avanzata dei Confederati.
Alviano aveva mantenuto il contatto con Francesco I e nella notte dal
13 al 14 settembre aveva ricevuto l'ordine di portarsi innanzi. Senza
indugio era partito colla sua cavalleria. Ad ovest di Marignano incontrò
la retroguardia francese, che in quel momento indietreggiava sotto i colpi
della suaccennata colonna confederata, che aveva manovrato contro il fianco
sinistro francese. Alviano raggruppò le truppe in ritirata, ristabilì
il combattimento e trasformò l'imminente vittoria dei Confederati
in una sconfitta. Nella persuasione di trovarsi di fronte all'intero esercito
veneziano, ossia a forze assolutamente fresche, le stanche truppe confederate
incominciarono a cedere terreno. Alcune sezioni vennero disperse e più
tardi quelli dei loro uomini, che non erano riusciti ad aprirsi una via
per Milano, furono trucidati. Altri distaccamenti ripararono presso il
corpo di battaglia, dove l'arrivo della colonna di aggiramento finì
per togliere qualsiasi coraggio e quei combattenti, essendo manifesto
che la manovra tattica era fallita. Per giunta, si diffuse fra i combattenti
la voce che fra breve i Veneziani si troverebbero ai fianchi dei Francesi.
Dinnanzi a questa situazione, i Confederati decisero di ritirarsi su Milano.
Tutti coloro che erano sfuggiti al fuoco dell'artiglieria francese ed
ai colpi dei lanzichenecchi, si formarono in quadrato, prendendo in mezzo
i loro feriti ed i cannoni. La difesa del quadrato verso il nemico fu
affidata agli uomini più gagliardi, che davano affidamento di sapere
opporsi efficacemente agli inseguitori, se mai ce ne fossero. I vinti
si allontanarono a passo lento, in un'ordinanza migliore di quella che
avevano avuto, quando si erano precipitati alle porte di Milano per correre
alla battaglia. Agli uomini, che non avevano potuto raggiungere il quadrato,
i vincitori diedero ovunque la caccia e, scovatili, li trucidarono senza
pietà. Un reparto di 300 uomini, ad esempio, si era ritirato in
un grande caseggiato in San Giuliano e vi si difendeva coraggiosamente,
tutt'altro che disposto ad arrendersi. Non potendo spezzare altrimenti
quell'eroica resistenza, i Francesi appiccarono il fuoco all'edificio
e ne abbruciarono vivi i difensori.
Giunti a Milano, i Confederati discussero se dovevano fermarsi e difendere
la città contro l'immancabile attacco dei Franco-Veneziani. Nel
frattempo avrebbero potuto chiedere d'urgenza nuovi rinforzi in patria
e richiamare le truppe, che si trovavano ancora nella regione dei laghi
dell'alta Italia. Quando però apparve manifesto che il duca non
era in grado di mettere insieme il danaro necessario per il soldo, decisero
di ripassare le Alpi e di ritornare alle proprie case. Non rimasero che
2.500 uomini a guardia del castello; il rimanente lasciò la capitale
lombarda già il 15 settembre. Così chiudeva una grande pagina
di storia politica della Confederazione come grande potenza, e nello stesso
tempo un capitolo della storia miliare svizzera, cruento e glorioso, seminato
però anche di numerosi errori.
Inauditamente grandi furono le perdite subite dai Confederati a Marignano.
Anche in questo caso le cifre tramandateci dalla tradizione non sono attendibili,
perché ordinariamente esagerate. Il numero dei morti, che coprivano
il campo di battaglia, si può far salire a circa 12.000; di essi
la maggior parte erano Confederati. Non va dimenticato, infatti, che gli
Svizzeri avevano continuamente attaccato e che durante gli assalti erano
stati decimati particolarmente dall'artiglieria. Nella Svizzera orientale
e mediana, donde provenivano le truppe che avevano combattuto a Marignano,
non vi era, si può dire, località che non dovesse piangere
qualche caduto.
Epilogo
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