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Al grande meraviglioso edificio cittadino è legato il nome di Vincenzo
Foppa. Il duca aveva infatti voluto che sulle pareti del portico della
corte centrale "si commemorasse e rappresentasse il modo e l'ordine
che fu fatto alla edificazione d'esso in dipintura": da un lato il
quartiere demolito sull'area del quale sarebbe stato costruito l'Ospedale
(con "le ruine di quelli casamenti, cioè pietre, ferramenti
e legname") (Filarete, 1458-1464, ed. 1972); dall'altro la solenne
cerimonia della fondazione (4 aprile 1457) con l'arcivescovo e "tutta
la chericia", gli ambasciatori, gli invitati d'onore, il popolo e
naturalmente Francesco Sforza e famiglia: due tipi di immagini tratte
in varia misura "dal naturale" la cui esecuzione fu affidata
al Foppa; "per non essersi trovato in que' paesi - aggiunse con sufficienza
il Vasari - miglior maestro" (1568). Lo storico aretino, che si recò
di persona a Milano forse solo nel 1566 (G.Agosti, 1998), non poteva ignorare
che nelle pagine del "Trattato" del Filarete (1458-1464 circa)
"Vincenzo bresciano" era stato menzionato tra i migliori frescanti
del momento, accanto a Filippo Lippi, Piero della Francesca, Andrea Mantegna,
Cosmè Tura. Nella prospettiva cortigiana che domina il "Trattato"
questa rassegna di nomi suona più come un elogio delle scelte della
committenza signorile che come una graduatoria di merito. Attorno al 1462-1463
(anno probabile dell'intervento dell'artista) il pittore è dunque
già percepito come titolare di una posizione di prestigio ottenuta
forse proprio grazie a questa perduta raffigurazione, da immaginare come
una tenuta visiva equidistante tra quella del regale corteo dei Magi di
Gentile da Fabriano (Firenze, Uffizi) e la Sagra di consacrazione della
chiesa del Carmine di Masaccio (con un "infinito numero di cittadini
in mantello … come se fussero vivi": Vasari, 1568), anch'essa
perduta
Sulla soglia dei trent'anni (il Foppa nasce a Brescia probabilmente nel
1427-1430) il pittore bresciano è un artista dalla formazione già
in gran parte compiuta e con un rapporto professionale con la corte sforzesca
ormai consolidato (nel 1461 Francesco Sforza lo presenta al doge della
Repubblica genovese come "sua arte … valde peritus": Ffoulkes-Maiocchi,
1909). La "Crocefissione" dell'Accademia Carrara di Bergamo
è l'unica opera firmata e datata (1456: la lettura dell'anno in
cifre romane è stata oggetto, in passato e in tempi recenti, di
varie interpretazioni che una ricognizione dello stato di conservazione
del dipinto sembra escludere: Ffoulkes-Maiocchi, 1909; Agosti, 1997; Romano,
1998) di questa prima fase produttiva in cui l'artista dimostra di controllare
in modo energico e molto personale il naturalismo goticizzante di area
veneta (Gentile da Fabriano, Jacopo Bellini, Pisanello), il nuovo ordine
architettonico e prospettico dei fiorentini e il valore unificante della
luce, che nel piccolo capolavoro bergamasco lega in un'unica dimensione
espressiva figure, edifici, paesaggio. Parte dei riferimenti figurativi
che qui affiorano erano a disposizione sul posto (il ciclo perduto di
Gentile per il Broletto di Brescia, l'Annunciazione del Bellini in Sant'Alessandro),
altri dovevano essere colti altrove: la mappa della formazione culturale
del Foppa include centri come Padova, Firenze e Genova senza che sia possibile
tuttavia per il momento ristabilire con precisione modi e sequenza dei
suoi viaggi di lavoro. All'inizio del settimo decennio, dopo un significativo
soggiorno genovese (Alizeri, 1870-1880, II, 1873) e con il domicilio ormai
fissato da anni (1456) nella città ducale di Pavia, il Foppa è
comunque pittore designato dei cantieri "toscani" in Milano:
l'Ospedale Maggiore, di cui già si è detto, il palazzo del
Banco dei Medici e la cappella fatta erigere in Sant'Eustorgio dal titolare
della succursale milanese del Banco (aperta nel 1452 a consolidamento
di un'alleanza politica), Pigello Portinari.
Nonostante il carattere insolito e la varietà esorbitante della
decorazione fittile, il palazzo mediceo (edificato non senza difficoltà
su di un'area donata dallo Sforza: se ne fa cenno in almeno ottantacinque
lettere del carteggio Portinari-Medici, tra il 1455 e il 1468: Ffoulkes-Maiocchi,
1909) appariva ancora all'inizio del Cinquecento come "la più
bella casa di Milano" (Michiel, 1521-1543, ed. 1884); sulla scia
del Vasari, il progetto è stato a lungo riferito a Michelozzo ma
è molto probabile che il Filarete, che nel suo "Trattato"
dedica all'edificio una lunga descrizione e un disegno, vi abbia avuto
un ruolo determinante. L'esiguità della via sulla quale si affacciava
l'edificio (oggi appare una struttura spolpata di cui sopravvivono alcuni
lacerti) giustifica in qualche modo il rilievo particolare attribuito
al cortile e al portale principale con le immagini di Francesco Sforza,
Bianca Maria Visconti e "altre varie figure" (Filarete, 1458-1464,
ed. 1972) (conservato al Castello Sforzesco). Sulla parete del cortile
interno e della loggia verso il giardino, dove si sviluppava un complesso
programma decorativo intriso di motivi antichi: temi astrologici, pianeti
e segni zodiacali, le fatiche d'Ercole e le imprese di Francesco Sforza
e di Cosimo de' Medici, le immagini di otto imperatori romani completate
dal "simulacro dello illustrissimo Francesco Sforza e della illustrissima
sua Madonna e figliuoli" (Filarete, 1458-1464, ed. 1972). E' difficile
credere che il Foppa da solo assumesse la responsabilità di un
ciclo tanto vasto che peraltro al tempo in cui scriveva l'Averlino rimaneva
in gran parte solo un progetto; la mano del Foppa si riconosce comunque
nel frammento di affresco staccato con "Cicerone fanciullo che legge":
un tema ispirato dalla "Vita Ciceronis" di Plutarco che dovette
sembrare agli amatori ottocenteschi assai più suggestivo di altri
e che fu quindi salvato. Restano riconoscibili, in questo discreto capolavoro
di urbanità letteraria e di buone maniere, il riferimento alla
scultura classica nella posa del bambino e la chiara impostazione prospettica
del pavimento, parallela a quella della più antica "Crocifissione"
bergamasca. Il prezioso frammento Wallace ha perso tuttavia ogni possibilità
di collegamento visivo con l'edificio che in origine lo ospitava (quasi
certamente il porticato del cortile) ed è quindi difficile recuperare
quei valori illusionistici dell'architettura dipinta che dovevano assicurare
l'integrazione dell'immagine nello spazio costruito. E' probabile comunque
che già in questo cantiere il Foppa perseguisse, come poi fece
nella cappella Portinari, una sorta di complementarità dissonante
tra le immagini e la struttura architettonica: una nuova misura capace
di contenere vocabolari diversi (parlate vernacolari e il tono nobile
della cultura classica) grazie all'intelligenza e al rigore del progetto
d'insieme.
Non è chiaro quale sia stato il ruolo della committenza in questo
delicato processo ed è difficile precisare se il Foppa sia, nei
suoi anni migliori, il pittore dei "fiorentini" o l'artista
dei signori lombardi. Certo è che quel "mondo novo" che
stupiva a Firenze gli inviati di Francesco Sforza ("A mi pare de
essere in un mondo novo" scriveva Niccolò de' Carissimi da
Firenze al duca nel 1459: Agosti, 1990) prende forma ora anche sulle pareti
della cappella Portinari. Fondata nel 1462, la cappella dedicata a San
Pietro Martire fu costruita in tempi relativamente brevi se sei anni più
tardi, nel 1468, era "finita di tutto ponto" (Bugatti, XVI secolo).
Quello che fu uno dei più moderni cantieri milanesi (la novità
architettonica del sacello è tale nel contesto dell'Italia settentrionale
che esso fu fatto replicare a Perti, nell'entroterra del Finale, dal cardinale
Carlo Domenico del Carretto) è singolarmente sprovvisto di documentazione
storica e non deve meravigliare quindi se questa struttura a pianta centrale,
più che ispirata alla Sagrestia Vecchia del Brunelleschi in San
Lorenzo, ha portato a lungo il nome dell'architetto fiorentino Michelozzo.
In realtà anche in questo caso il carattere dell'edificio, in cui
la decorazione plastica e la rappresentazione pittorica assumono un ruolo
fondamentale nella qualificazione dello spazio, è sostanzialmente
estraneo alla misura toscana. E' quindi probabile che alla sua realizzazione
sia stato chiamato un maestro legato alla tradizione locale. Alcuni storici
hanno voluto riconoscere nella generosa distribuzione degli elementi ornamentali
il segno della personalità del Filarete; altri hanno supposto che
sia un intervenuto qui Guiniforte Solari, architetto presente anche in
San Pietro in Gessate di cui i fratelli Portinari finanziarono l'abside;
un'ultima ipotesi, cui va riconosciuto il merito di cogliere la stretta
parentela stilistica tra le figure dipinte e gli angeli danzanti modellati
in terracotta sul tamburo, è a favore del Foppa (le varie proposte
sono evocate dal Patetta, 1987). Il quesito è destinato a rimanere
per il momento irrisolto anche se può essere utile rilevare che
questo edificio ricco di riferimenti classici ha registrato, come sarà
il caso più tardi e in proporzioni maggiori dell'abside bramantesca
di Santa Maria presso San Satiro, un successo più vivo nel campo
della pittura (il Foppa ne riproduce il profilo nel "Compianto"
già a Berlino) che in quello dell'architettura.
La decorazione dipinta da Vincenzo Foppa sulla cupola, sui peducci della
volta e sui quattro arconi ("Il pittore fu Vincenzo vecchio in quella
età raro": Bugatti, XVI secolo) risponde alla duplice funzione
del sacello, destinato a ospitare la reliquia del capo del santo domenicano
e ad accogliere il monumento funebre del suo fondatore, collocato al centro
della cappella (Bernstein, 1981). Una singolare corrispondenza corre tra
la sequenza iconografica e l'evoluzione del linguaggio foppesco che si
afferma rapidamente, dopo le prime battute in cui ancora affiorano citazioni
e precisi riferimenti visivi, in piena autonomia: un linguaggio che dagli
omaggi padovani nella parte alta della cappella si allarga in gamme cromatiche
brillanti e schiarite, stemperando il tracciato del disegno e restituendo
alla luce il ruolo centrale del racconto. Nelle scene sugli arconi il
Foppa mette a punto una "pittura di luce" che richiama esperienze
romane e fiorentine: gli affreschi della cappella Castiglioni in San Clemente
a Roma, che il pittore bresciano sembra aver visto di persona, gli affreschi
dell'Angelico in San Marco a Firenze e forse quelli della cappella Paolina
in Vaticano. Su tutti domina, tuttavia, il magistero di Masaccio, visto
sulle pareti della Brancacci al Carmine di Firenze, e a Pisa (il polittico
del Carmine, oggi smembrato), dove molto probabilmente il Foppa fu prima
della conclusione dei lavori milanesi. Il pittore della cappella Portinari
compie questi pensosi itinerari in una prospettiva quasi fuori del tempo,
lontana dai richiami dell'attualità. Come spiegare infatti, anche
conoscendo i tempi lunghi che sempre hanno contraddistinto le imprese
dell'artista, la vicinanza di una "Annunciazione masoliniana"
(dove giustamente Renata Cipriani, 1963, riconosceva anche ricordi tardogotici
bembeschi) e di una "Assunzione" che legge la tradizione milanese
alla luce delle prime opere bolognesi di Francesco del Cossa (a questo
stesso momento risale la "Madonna del libro" del Castello Sforzesco
a Milano). Poco più avanti nel tempo, filtrano invenzioni e spunti
che richiamano modelli trecenteschi (il monaco accovacciato sui gradini
del pulpito del "Miracolo della nube" e la figura seduta sul
parapetto del "Miracolo della falsa Madonna") accanto a temi
di una disarmante modernità, come quello del giovane appoggiato
alla balaustra e sfiorato dalla luce, anzi dall'ombra riflessa come solo
un pittore settentrionale avrebbe potuto immaginare. "Il particolare
resta in modo precipuo sommerso nell'insieme" (Cipriani, 1963). La
luce e il colore, per quanto schiariti, legano le cose: "Il colore,
dunque, che aveva dal Medio Evo in poi una bellezza per così dire
connaturata alla purezza e al pregio della materia più scelta,
una bellezza, insomma, gemmea ed elementare, ora attende l'investitura
volta per volta dal lume e dall'ambiente. Ora, ecco, possono per la prima
volta comparire in pittura il saio e la sargia, il legno e il muro, il
colore dei materiali più dimessi; il rosso pepe di mattoni lombardi
e il bigio delle tonache dei certosini. Colori anticamente suntuosi non
mancano: chi nega gli ori del Foppa? Ma chi non avverte che anch'essi,
evento capitale, smontando di fulgore, passano in valore e, dal grado
sovrumano che avevano, discendono ad altro di verità e di momento,
accanto agli altri compagni, mi si conceda, di ventura luminosa?"
(Longhi, 1929). La scena del "Martirio di San Pietro" rimarrà
a alungo legata al testo, virtuosamente manzoniano del Longhi (1929):
"Potreste cancellare queste figura … e resterebbero ancora immobili
e veri quel terreno calpesto, quel viottolo fra i tronchi, fatto per tutti
ma a quest'ora deserto, quel cascinale anonimo, quei monti declinanti
sul cielo tenero, sul lago imbrunito: insomma una passeggiata il Lombardia".
I valori quasi neotrecenteschi della natura del Foppa non avranno un seguito
se non nell'opera del pittore stesso, fedele sino alla fine a quella formula
abbreviata, forte e poco suggestiva, che consente di delineare il paesaggio
con poche linee curve e di suggerire al tempo stesso l'inesorabile vicinanza
dell'orizzonte. Lo stile compendiario del maestro, che da lì a
poco dominerà la scena figurativa settentrionale (sigle e invenzioni
foppesche condizionano alla fine dell'ottavo decennio buona parte del
territorio lombardo e della Liguria), sembra rimanere senza eco nei tempi
brevissimi. Alcuni sondaggi producono tuttavia risultati sorprendenti,
come è il caso di Giovanni Ambrogio e di Cristofaro de' Predis
miniatori che all'inizio degli anni Settanta sembrano essere tra i più
attenti osservatori del pittore bresciano ("Libro d'ore" forse
per Vitaliano Borromeo, 1474 circa, New York, Collezione Kraus; "Libro
d'ore", 1476, Torino, Biblioteca Reale).
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