Galeazzo Maria Sforza morì pugnalato in chiesa il giorno di Santo
Stefano del 1476; anche nei suoi risvolti più tragici, un fine
tanto teatrale bene si addice al figlio del duca Francesco, inflessibilmente
fedele durante i dieci anni di regno al proprio imperativo di magnificenza
e di apparato. Anche le giustificazioni libertarie dei congiurati "che
volevano immitare quelli antichi romani e esere liberatori della patria"
(malgrado la nobiltà dei propositi l'ispiratore della cospirazione
"fu strascinato dal popolo e dalli punti per tutta la città
e poi finaliter li porci lo mangiorno": Casanova, 1899) illustrano
a pennello il clima retorico e dispotico di quegli anni. Un corpo nutrito
di letterati contribuisce a diffondere il gusto per l'antico (Garin, 1983;
Agosti, 1990) anche se i riferimenti visivi della cultura lombarda continueranno
a derivare da fonti diverse da quelle utilizzate a Roma o a Firenze (Bertelli,
1989). All'inizio del Cinquecento l'immagine della città è
indissolubilmente legata al suo passato classico: molti sono i monumenti
visitati da Marcantonio Michiel che richiamano siti ed edifici romani
(la chiesa di San Lorenzo "già dedicata ad Ercole"; San
martino "dedicata olim a Marte"; San Vittore "era un teatro
edificato, come si crede, da Gabinio Romano nel Consolato di Pompeio"
e così via: 1521-1543, ed. 1884). Le scelte culturali di Galeazzo
Maria Sforza contribuiscono certo a costruire questo imponente apparato;
agli esordi del suo governo, il duca elargisce distinzioni ed elogi all'unico
pittore che a Milano può dare forma al suo progetto ambizioso (lo
Sforza avrebbe voluto trasformare il ducato in regno ottenendone il titolo
dall'imperatore Federico III: Woods-Marsden, 1987): assumerà il
Foppa tra i suoi famigliari (26 settembre 1468) e otterrà per lui
esenzioni fiscali "avendo nuy piena notitia de la virtute de dicto
maestro Vincentio, quale nel mestero suo non ha chi lo antecede"
(Ffoulkes-Maiocchi, 1909). Stupisce dunque che il pittore non sia stato
coinvolto in modo più personale al tempo di Galeazzo Maria, quando
il suo nome appare per lo più menzionato in imprese collettive
(Fiorio, 1998a).
Cambiano progressivamente con il nuovo signore i criteri di organizzazione
e le esigenze, e al modello umanistico dei rapporti diretti tra il principe
e l'artista basato sugli esempi antichi si sostituisce la figura del coordinatore
amministrativo che talvolta interferisce nelle scelte del gusto. La razionalizzazione
dei cantieri, già avviata sotto Francesco Sforza, diventa con Galeazzo
Maria una necessità imposta dalla dimensione delle imprese decorative
e dai tempi che il duca esige sempre brevissimi (Welch, 1995). La Cappella
del Castello milanese di Porta Giovia, collocata all'interno dell'edificio
militare che lo Sforza trasforma in dimora ducale (il trasferimento dalla
Corte dell'Arengo fu dettato dall'accresciuta importanza politica del
luogo di residenza del signore: Lubkin, 1990), è da questo punto
di vista un esempio particolarmente significativo. Siamo nel 1473; il
14 febbraio l'architetto-capo Benedetto Ferrini (Boucheron, 1998) ha elaborato
il progetto d'insieme della decorazione della volta; 20 marzo: Bartolomeo
Gadio preannuncia l'arrivo del pittore Bonifacio Bembo che ha predisposto
la sequenza dei santi sulle pareti; 15 luglio: Foppa, Montorfano, Cristoforo
Moretti, Stefano de' Magistris collaudano i lavori ormai ultimati (Welch,
1995; Fiorio, 1998a). A fronte di questo affannato calendario, pochi nomi
e poche notizie certe: accanto al Bembo, Stefano de' Fedeli, di cui è
stata da poco recuperata l'identità figurativa ("Decollazione
di San Giovanni Battista" e altri elementi di polittico, 1478, Monza,
Duomo: Shell-Sironi, 1989c; Natale, 1993), e Giacomino Vismara e "compagni
depintori" (Beltrami, 1894); artista quest'ultimo senza opere, probabile
rappresentante di una pregiata retroguardia figurativa (una diversa ipotesi
in Albertini Ottolenghi, 1997). Il rilievo delle giornate di lavoro ha
messo in evidenza la presenza di un cantiere popoloso e neppure troppo
omogeneo; in tutto cinquantotto sezioni o campi di intervento e la presenza
contigua di tecniche diverse (Fiorio, 1998a). Nella dominante intonazione
bembesca e malgrado i danni, le raschiature e i pesanti restauri subiti
dalle pareti è ancora oggi possibile intravedere personalità
stilistiche distinte. Il criterio di fondo è comunque agli antipodi
rispetto a quello adottato nella cappella Portinari; qui gli stucchi e
la lamina d'oro sulla quale si staglia la sequenza dei santi (che doveva
costituire una cornice lugubre e abbagliante per l'immagine centrale con
i ritratti ducali, oggi perduta) mascherano la semplicità dei materiali
di costruzione (sabbia, calce, mattoni, pietre) e suggeriscono l'idea
di un lusso sfrenato ("se faci che sua Signoria mangia in oro"
impone il duca nel programma di decorazione del Castello di Pavia, 1469:
Romano, 1978; Welch, 1989). Stesso sfoggio di ricchezza sulla volta, dove
il "Cristo risorto" appare al centro di una mandorla in metallo
prezioso; a questo contesto dominato dall'artificio e dalla meraviglia
appartengono anche i soldati abbagliati e riversi attorno al sepolcro:
studi di figura legati alla tradizione pisanelliana, ritratti "in
qualche bello acto più proprio sia possibile per stupire il signore
e i suoi ospiti" (uno dei programmi elaborati da Galeazzo Maria nel
1471-1472 per la decorazione delle stanze del Castello prevede "che
Alessio sia depincto che uno cervo l'habia butato da cavallo e luy alzi
le gambe suso al cello in più belle acto sia possibile": Welch,
1990). La decorazione della Cappella si adegua perfettamente ai principi
di "norma" e di "varietà" che lo Sforza impone
nei grandi cantieri ducali; un programma iconografico identico a questo
sarà scelto per la chiesa di Santa Maria degli Angeli, ora delle
Grazie, a Vigevano (1472: identico costruttore, Benedetto Ferrini; identico
il soggetto; simile la squadra, Bonifacio Bembo, Leonardo Ponzoni, Zanetto
Bugatto: Binaghi Olivari, 1998a) e per la Cappella del Castello di Pavia.
"Definita come lo spazio attorno alla persona del duca, la corte
sta al centro del ducato … Anche se la corte non è un centro
di produzione, è il centro di consumo più importante dello
stato milanese" (Lubkin, 1990); Galeazzo Maria Sforza contribuisce
in modo essenziale a realizzare questo nuovo assetto politico, ricco di
risvolti sul piano sociale, economico e della cultura. L'allargamento
del corpo dei cortigiani nel 1473 porterà a palazzo (malgrado qualche
resistenza aristocratica come quella dei Borromeo) i rappresentanti delle
maggiori famiglie e di tutte le più importanti città del
dominio. Su questa popolazione eletta, che gravita attorno al signore
secondo il rigido cerimoniale cortigiano ("La magior consolation
che posso avere è di stare nela presentia vostra e contemplarme
in essa come fano li sancti nela Maiestà Divina" scrive Giovanni
Matteo Bottigella al duca: Lubkin, 1990, 1994). Galeazzo Maria esercita
il proprio potere di selezione desigando il nome di ciascuno in lunghe
liste manoscritte: invitati per le feste annuali, per gli avvenimenti
straordinari, per i viaggi, liste continuamente aggiornate per includere
i nomi delle persone degne di essere ritratte nei grandi apparati ducali.
Il valore politico di questo "ritrattismo quasi maniaco" (Longhi,
1928) è trasparente e si legge anche nei carteggi diplomatici della
corte (la scontentezza di Galeazzo Maria per non essere stato raffigurato
dal Mantegna sulle pareti de "la più bella camera del mondo"
è ricordato da G. Agosti, 1997; i documenti in Signorini, 1985).
In questa prospettiva gerarchizzata trova la propria ragione la grande
considerazione che conobbe "il ritratto dal naturale" alla corte
sforzesca. Di questo indirizzo di gusto comune ai regimi signorili del
Rinascimento sopravvivono oggi più documenti scritti che ricordi
visivi; il volume della produzione doveva tuttavia essere davvero considerevole
(tra i vari esempi, il lotto di sedici ritratti ritirato nel 1478 dal
Castello di Pavia: Beltrami, 1894) e, contrariamente a Firenze, opera
quasi esclusivamente di specialisti. Sono questi i campi che attivano,
in nome delle competenze settoriali, le relazioni e gli scambi più
spettacolari. Baldassarre da Reggio, di cui oggi stentiamo a riconoscere
i meriti reali, è stato probabilmente uno dei tramiti più
attivi tra Ferrara e Milano. Anche il corpo visivo di Zanetto Bugatto
tarda a prendere forma pur se conosciamo il particolare percorso del pittore,
che ha al suo attivo un soggiorno di tre anni (1460-1463) presso Rogier
van der Weyden a Bruxelles. Una lettera di Bianca Maria Visconti al maestro
(7 maggio 1463) per ringraziarlo di "mostrarli liberamente tucto
quello intendevati" ci assicura che si era trattato di un proficuo
viaggio di lavoro (Sterling, 1984; Gilbert, 1998). Nessun ritratto "rogeriano"
di fattura lombarda è stato fino ad oggi identificato (nel 1471
Zanetto fu spedito a Mantova per aggiornarsi sul nuovo corso della pittura
nella "Camera" del Mantegna in Palazzo Ducale); le varie ipotesi
formulate in passato sono state recentemente riesaminate da Federico Cavalieri
(1987, 1989, 1990; in "Museo d'arte Antica", 1997) e da Luke
Syson (1996). Allo stato attuale degli studi solo il piccolo "Ritratto
di Galeazzo Maria Sforza" al Castello Sforzesco di Milano può
essere restituito con buona approssimazione al collerico artista. Il frammento
di pala con "Bona di Savoia presentata da una Santa martire"
anch'esso al Castello, meno convincente dal punto di vista dello stile,
costituisce comunque una testimonianza capitale di un genere pittorico,
la pala d'altare con i ritratti degli offerenti, che anche Zanetto praticò
(pure ad affresco, come nella chiesa di San Celso, 1473: Caffi, 1888):
tanto più che il dipinto, realizzato per uno degli altari del Duomo,
divenne probabilmente un testo di riferimento per altre produzioni simili
(Syson, 1996, da completare con Shell, 1993a, e con B. Agosti, 1997).
Non è facile tracciare una mappa delle presenze forestiere a Milano
al tempo dei primi Sforza, e valutare quindi l'impatto che gli esempi
"ponentini" posso avere avuto sui maestri locali; spiace non
sapere di più di quel Niccolò "teutonicus pictor"
che nel 1455 regalava a Borso d'Este in Ferrara i ritratti del duca e
della duchessa di Milano, eseguiti con tutta verosimiglianza dal vero
(Malaguzzi Valeri, 1902); nulla si sa neppure di quel pittore "todesco"
(1472) che frequentava la casa di Sforza Secondo Sforza, fratello di Galeazzo
Maria, che si dice ansioso di vedere una sua "maistade molto bella"
(Albertini Ottolenghi, 1998); allo stesso Sforza Secondo, che aveva mostrato
al duca "una figura cavata dal naturale per uno pictore Ceciliano",
si deve il tentativo di portare a Milano Antonello da Messina nel 1476
(Cavalieri, 1987). Sappiamo invece che fu a Milano almeno per due anni
(1476-1478) stipendiato dalla duchessa Bona il ginevrino Johannes de Sapientibus
(probabilmente identico a Hans Witz), le cui opere avevano folgorato Branda
Castiglioni di passaggio davanti alla sua bottega (Welch, 1984). le luminose
intuizioni dello Sterling (1986) e un suggerimento non meno acuto del
Romano (1994) ci consentono di seguirne la traccia fino alla periferia
della città ("Cristo davanti a Pilato", Chiaravalle Milanese,
Abbazia, cappella di San Bernardo). Il registro delle presenze si è
dunque arricchito di qualche elemento significativo anche se è
forse ancora troppo presto per correggere il quadro della pittura milanese
di questi anni. Una scoperta d'archivio del tutto rilevante (Cavalieri,
in "Ambrogio da Fossano", 1998) aggiunge qualche certezza a
uno dei problemi più intriganti di questa vicenda: l'autore della
"Madonna col Bambino e angeli" della collezione Cagnola (Gazzada,
presso varese) rimane sconosciuto ma un documento aggancia la bella tavola
al territorio lombardo e la pone in relazione con un'opera scomparsa di
Vincenzo Foppa. Per un dipinto chiave della storia dei rapporti tra l'Italia
e i paesi del Nord (Longhi, 1942; Bologna, 1957; Zeri, 1957) non è
poco e si potrà quindi nuovamente riflettere su questo testo di
cui piacerebbe conoscere con precisione la tecnica di esecuzione (separandolo
eventualmente da altri elementi che gli sono abitualmente associati, coerenti
dal punto di vista dello stile ma forse pertinenti a un altro polittico).
Gli anni di tutti gli eccessi cortigiani sono anche quelli in cui la produzione
delle immagini conosce gli interventi normativi più forti. "La
storia sociale ha spesso rischiato il naufragio sulle secche della teoria
del riflesso" (Castelnuovo, 1977) e questa congiuntura milanese,
schematizzata in una formula tanto abbreviata, rischia davvero di condurre
lo storico alla rovina. Esiste tuttavia una corrispondenza stretta almeno
dal punto di vista cronologico tra le vicende appena evocate e quelle
legate ai grandi cantieri religiosi che prendono l'avvio nell'ottavo decennio
del secolo, poco prima dell'assassinio del duca. A questo momento di delicate
mutazioni linguistiche (non un semplice passaggio di consegne tra la vecchia
generazione bembesca e quella nuova, ma un campo in cui si esercitano
resistenze e sollecitazioni diverse) corrisponde una crescita vigorosa
dell'autorità foppesca che costuituisce per alcuni anni e nell'ambito
della committenza pubblica il comune polo di riferimento visivo. Vari
indizi lasciano supporre che questo allineamento figurativo, forte tanto
sul piano delle esigenze espressive quanto su quello formale, sia stato
innescato o quanto meno potentemente incoraggiato da un grande ciclo affrescato
negli anni attorno al 1480. Sulla parete che divideva il coro dei monaci
dalla navata nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Milano (comunemente
designata come Sant'Angelo) la Vita e la Passione di Cristo erano rappresentate
in sedici capitoli disposti secondo un modulo geometrico semplice ed efficace.
Il tempio dei francescani Osservanti milanesi, di cui la tradizione attribuiva
la fondazione allo stesso Bernardino da Siena, venne raso al suolo nel
1551 per cedere il posto al nuovo tracciato delle fortificazioni (Nova,
1983; Paletta, 1987), ma della monumentale narrazione sopravvive tuttora
il ricordo in una riproduzione in scala monumentale (Bellinzona, Santa
Maria delle Grazie: Di Lorenzo, in "Pittura a Como", 1994; Natale,
1994), in una serie molto nutrita di derivazioni parziali (le tracce del
tramezzo di Santa Maria della Pace, da poco riscoperte, riproducono in
parte il modello foppesco) e in un trascurabile frammento di affresco
murato nella sagrestia della moderna chiesa di Sant'Angelo a Milano (staccato
a massello, il "sacro calcinaccio" è tratto probabilmente
dalla scena con la "Fuga in Egitto"). La qualità molto
alta di queste invenzioni, tradotte con tecniche e in formati diversi,
conferma l'esistenza di un comune modello di cui le ragioni dello stile
e della composizione provano la paternità di Vincenzo Foppa. Il
tramezzo di Sant'Angelo sembra dunque avere avuto un ruolo centrale nel
processo di razionalizzazione visiva, di semplificazione formale, sostenuto
per ragioni di culto dall'Osservanza francescana. Esso informa il linguaggio
di pittori attivi o in formazione alla fine degli anni Settanta (tra gli
altri Marco Lombardi, Stefano de' Fedeli, Ambrogio Bergognone, Ambrogio
Bevilacqua, Bernardo Zenale) ed esercita la propria presa anche sugli
scultori (in modo particolare i modellatori di terracotta come Agostino
de' Fondulis e gli intagliatori di legno come Pietro Bussolo) in scambio
dinamico con quanto viene dalla lezione del Mantegna. Pochi resistono
a questa onda d'urto; taluni per irrimediabile rinuncia nei confronti
del nuovo, altri per personale autonomia di esperienze, come è
il caso di Cristoforo de' Mottis che negli antelli della vetrata di "San
Giovanni Evangelista" in Duomo (1474-1478: Pirina, 1986), eseguiti
dopo un prolungato soggiorno genovese (dal 1468; impegni decorativi per
palazzi privati sono contratti ancora nel 1476: Alizeri, 1873; Belgrano,
1875) e vari percorsi padani, produce una narrazione colta e inimitabile,
segnata dal classicismo espressivo di Francesco del Cossa , dal repertorio
architettonico del Filarete e da alcune novità fiorentine (tra
le altre, la tavola incisa da Antonio Pollaiolo con la "Battaglia
degli uomini nudi", 1471-1474 circa).
Ma anche nel grande cantiere del Duomo la presenza del linguaggio foppesco
resta dominante; soprattutto nella vetrata con "Storie di San Giovanni
Damasceno" (Niccolò da Varallo e collaboratori: documenti
dal 1479), in quella di "Sant'Eligio" (Niccolò da Varallo
e collaboratori: documenti dal 1480 al 1486; Pirina, 1986) e in quella
del "Nuovo Testamento" (documenti dal 1475 al 1489: bottega
di Antonio da Pandino; dal 1519 al 1525: bottega di Pietro da Velate)
dove è molto probabile che accanto al maestro vetraio e ai suoi
collaboratori diretti sia attivo, come è stato supposto in passato
(Romussi, 1902; Wittgens, 1949; Ragghianti, 1954), lo stesso Foppa nel
ruolo di inventore e di cartonista (un accurato riesame del ciclo in Gnaccolini,
1993). "Comunemente quelli maestri che lavorano (il vetro) hanno
più pratica che disegno" (Cennini, fine XIV secolo, ed. 1975);
le grandi vetrate rinascimentali del Duomo di Milano attestano la durata
di questo principio della ripartizione delle competenze sino alla fine
del XV secolo (una diversa interpretazione dell'organizzazione del cantiere
in Pirina, 1986) e costituiscono l'esempio più compiuto della nuova
supremazia del disegno e dell'idea sulla realizzazione materiale delle
opere. L'affermazione del linguaggio foppesco si compie dunque in un momento
in cui gli scambi tra i vari settori tecnici conoscono un grande fervore
(il Bramantino riceverà una formazione da orefice e frequenterà
l'ambiente degli scultori); un intreccio che in parte resta ancora da
dipanare e sul quale si innesta con effetti prorompenti la presenza milanese
del Bramante.