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Lombardia

 

La citt� di Milano dalla caduta degli Sforza al dominio spagnolo
di Giorgio Chittolini

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L’alternarsi delle dominazioni nei primi decenni del Cinquecento
Ludovico il Moro, costretto una prima volta alla fuga nell’estate del 1499, dopo un effimero tentativo di riconquistare lo Stato, fu definitivamente sconfitto nell’aprile del 1500. Il dominio di Luigi XII, accolto dapprima con relativo favore, grazie anche alla luogotenenza di Gian Giacomo Trivulzio, suscit� via via malcontento e ostilit� crescenti, soprattutto per le gravose imposizioni fiscali. La sconfitta francese a Ravenna, ad opera della cosiddetta Lega Santa promossa da Giulio II, consent� la restaurazione del dominio degli Sforza, nella persona di Massimiliano, figlio di Ludovico il Moro. Egli fece un'entrata trionfale il 20 dicembre 1512: ma l'ambasciatore veneziano pochi giorni dopo scriveva alla Serenissima essere il "duchetto" nulla più che un’insegna ("tamquam signum"), e che Milano si poteva dire essere governata piuttosto "da Tedeschi, da Sguizari e Spagnoli". Pochi anni dopo i Francesi, con la vittoria di Marignano, poterono riconquistare Milano (1515). Ma la citt� e il Ducato continuavano a essere al centro della grande contesa che in tutta Europa vedeva contrapposti gli Asburgo d’Austria e di Spagna alla Francia. Il prevalere delle armi spagnole, nel 1521, consent� nuovamente il ritorno di uno Sforza, Francesco II, fratello di Massimiliano: la sua principale forza consisteva tuttavia nell’appoggio dell’imperatore Carlo V. Dopo una nuova riconquista francese nell’inverno fra il 1524 e il 1525 – operazione conclusasi con la famosa sconfitta subita a Pavia da Francesco I di Francia – lo Sforza fu rimesso sul trono, ma ormai sempre più sotto il controllo e la tutela di Carlo V, che anzi per alcuni anni (dal 1525 al 1529), in seguito alla congiura di Gerolamo Morone, govern� direttamente, attraverso suoi luogotenenti.
Il quadro della vita milanese nei primi decenni del secolo presenta dunque gravi segni di crisi. Da un lato risultava evidente il tramonto di quello che era stato uno dei più grandi Stati italiani: non solo per la diminuzione dei territori (l’odierno Canton Ticino, la Valtellina e la Val Chiavenna, Piacenza, Parma, Genova: tanto che l’estensione complessiva si riduceva a circa 17.000 chilometri quadrati), per la grave crisi finanziaria (da un bilancio di forse 800.000 ducati alla fine del Quattrocento si scese ai forse 200.000 ducati del tempo di Francesco II), per la poca autorevolezza dei regimi che si succedevano. Soprattutto si capiva bene, ormai, che il Ducato di Milano era una semplice pedina nel gioco delle grandi potenze in lotta per l’egemonia europea, e non appariva più plausibile la possibilità di una stabile restaurazione di un governo milanese, o di una dinastia indigena come gli Sforza. nelle cancellerie e nelle corti d’Europa, nelle citt� italiane, nelle filastrocche dei cantimbanchi sulle piazze, il gran discorrere che si faceva sulle sorti future dello Stato di Milano prescindeva sempre di più dalla capacit� di durata della dinastia sforzesca ("Guerre d’Italia", 1989, II e III). Per altro verso le lunghe guerre guerreggiate, i saccheggi, le distruzioni, i taglieggiamenti delle soldatesche (dei Francesi come degli Svizzeri, degli Spagnoli come dei lanzichenecchi), il malgoverno degli occupanti, il susseguirsi di carestie colpivano duramente la popolazione. Le pagine dei cronisti – il Burigozzo, Giovanni Andrea da Prato, Ambrogio da Paullo – descrivono questi anni come un periodo fra i più difficili e drammatici della storia della citt�, e danno vivo il senso di un disagio che si esprime anche in una diffusa inquietudine culturale e religiosa (Martini, 1957).
E tuttavia con questo quadro, di un potere statale in disfacimento e delle difficolt� provocate dalla guerra, contrastavano altri aspetti della citt� e della vita della societ� milanese, dei diversi ceti, "corpi" e gruppi sociali che la componevano. La crisi non impediva di vedere anche segni positivi di vitalit� e di consistenza. La citt�, innanzitutto: "il povero Milano" come scrivevano tanti cronisti dell’epoca. Nonostante i guasti i le distruzioni delle guerre, non tutta l’antica floridezza economica si era perduta. L’inviato veneziano Gian Jacopo Caroldo intorno al 1520 offriva un quadro in cui alle zone d’ombra si contrapponevano segni di vitalit� e di ripresa. "La cit� de Milano � grande, e la più populosa de Italia. Sono molti poveri, e si consuma pan de mestura (cio� di segale e miglio). Sono etiam gran quantit� de gentilomini, che hano grossa intrata fino a ducati 8 in 10.000. Fanno gran spese in fameglia: cavali, vestiti e viver ed etiam in elimosine; adeo che in capo de l’anno vengono ad intacar la intrata de l’altro. Sono grandissimo numero de artefici più che in (ogni altra) citt� de cristiani, li quali fano ogni sorta lavori e merce, che vanno per tutto el mondo, come armature, briglie, selle, ecc.; e per� ditta citt� sempre vor�a guerra, per dar spazamento a le robe sue. Sono etiam molti mercadanti, qual fanno per Venezia, Puglia, Lion, Spagna ed Alemagna: lavorano assai panni de seda, se fano boni veluti … Sono etiam molte boteghe de lana: se fa gran numero de panni e de barete, se manda per ogni fiera de Lion in bona summa …, e mandano etiam in Linguadoca; fanno etiam fostagni e bombasine in gran quantit�…".
Ma non solo la citt� appare capace di reagire nelle sue attivit&‌agrave; economiche. Molti grandi casati – i Visconti, i Trivulzio, i Borromeo, i Castiglioni – mostrano di avere risorse e ricchezze per partecipare attivamente al gioco politico, in una schermaglia di scontri e di alleanze fra i diversi partiti e le forze esterne al Ducato: guelfi e ghibellini, francesi, imperiali, sforzeschi … Come ha ben messo in luce Giampiero Bognetti (1957), questi decenni rappresentano una fase di rinnovata attivit&‌agrave; politica dei grandi casati milanesi. Soprattutto, caratteristica importante � ancora l’emergere, con rilievo e consistenza maggiori di quanto sappiamo per l’et� sforzesca, di strutture di aggregazione cittadine e municipali che si formano intorno a parrocchie, vicinie, quartieri (le "porte"), nella forma di consigli, di assemblee, di deputazioni: organismi che compaiono con vivacit� non trascurabile nelle testimonianze cronachistiche dell’epoca, spesso come espressione di umori e orientamenti popolari. Mercanti e giurisperiti, artigiani e notai, per parte loro, sembrano consolidare le loro vecchie strutture di aggregazione – collegi, mestieri, confraternite – e danno vita a forme di azione collettiva. Rimangono attivi e vivaci gli enti elemosinieri, gli ospedali, le istituzioni della Chiesa cittadina, ora più liberi di muoversi, senza il controllo di una forte signoria. Si delinea come un processo di riorganizzazione dal basso delle forze e delle istituzioni urbane, in un lavorio nuovo di ricostruzione del tessuto municipale. da tutto questo, come si � detto, non emergono forti progetti politici: ma si intravede un orientamento non del tutto passivo, volto a cercar spazio, se non per un grande stato territoriale, per condizioni di autonomia che i ceti e la citt� si sentono abilitati a rivendicare, nell’ambito delle diverse dominazioni possibili.
Ci si chiedeva quale potesse essere il "padrone" migliore. La Francia, ben vista in un primo tempo, e sostenuta soprattutto dai "gentiluomini", appariva in discredito, per le cattive prove già date e per il suo progressivo indebolirsi nello scontro con gli Asburgo. Si parlava anche della Repubblica di Venezia, ma senza entusiasmo, nel timore di un governo poco amico: come riferiva ancora l’ambasciatore Gian Jacopo Caroldo, i gentiluomini aborrivano la sua superbia; "li mercadanti et artefici etiam dubitano che, essendo milano subiecto a Venezia, se veniriano a minuir le facende con devedarli el comprar"; i chierici temevano una forte subordinazione delle istituzioni ecclesiastiche, secondo la prassi introdotta nella Terraferma ("quasi tutti li benefici seriano de’ veneziani, adeo che milanesi non averiano cosa alcuna"). Maggiori simpatie suscitavano altri potentati. Circolava con insistenza, ad esempio, l’idea di una Milano "cantone svizzero", anche se essa non si manifestava in progetti precisi: un’idea del resto accreditata e resa plausibile anche dalla forte e continua pressione espansiva dei confederati che premevano sui confini o che, chiamati dai contendenti, scorazzavano per il Ducato. Simpatie continuava a suscitare anche una soluzione imperiale, come risulta dai molti segni di disponibilit� che si manifestavano fra i ghibellini, via via che il prestigio dell’Impero si rafforzava; disponibilit� che avrebbe trovato espressione poi, alla morte dell’ultimo Sforza, nella richiesta della citt� di restare "perpetuamente nel poter et regimine imperiale de Sua maest� (Carlo V) et Sacro Romano Imperio". E fu questo l’esito, alla morte di Francesco II; esito peraltro distorto nei suoi sviluppi, per l’assegnazione che Carlo V fece di milano al ramo spagnolo degli Asburgo.
Ma nel frattempo, mentre si dibatteva sulle sorti del Ducati, nei primi decenni del Cinquecento si poterono anche introdurre e sperimentare nuove istituzioni, capaci di rappresentare la cittadinanza milanese e le sue principali componenti di fronte ai governi che si succedevano. Proprio i frequenti mutamenti di regime che travagliarono il Ducato ebbero come effetto il rafforzamento di quelle magistrature e pratiche in cui potevano trovare espressione e riconoscimento istituzionale le locali forze municipali. In primo luogo va ricordata la costituzione del Senato, o, se si vuole, il forte aumento di autorit� che esso ebbe a registrare dopo gli antecedenti viscontei e sforzeschi. Di fatto questa magistratura – in cui si fondevano gli antichi due Consigli sforzeschi, Consiglio Segreto e Consiglio di Giustizia – veniva ad assumere nel periodo francese un carattere nuovo e diverso: ora la lontananza del re (sostituito a Milano da un rappresentante, la cui autorit�, per quanto alta, non era certamente paragonabile a quella di un sovrano presente) conferiva a questa magistratura un rilievo e un'autonomia che prima non aveva. Di fatto essa avrebbe visto notevolmente ampliate le sue prerogative; inoltre, costituita com’era da esponenti del ceto dirigente milanese e lombardo, finiva per porsi, di fronte a principi deboli o lontani, come organismo autorevole di rappresentanza, e anche di governo della citt� e dello Stato. E accanto ai senatori – quei senatori "sotto la ragione de’ quali tutto il ducato di Milano era regulato" -, e in stretta connessione con essi, operava il Collegio dei Giureconsulti. Se vi era stato da parte dei Visconti e degli Sforza il tentativo di fare dei dottori del Ducato un ceto di giurisperiti al servizio del principe e del suo governo, la caduta stessa della dinastia sforzesca aveva sanzionato il tramonto definitivo di quel disegno (e la scomparsa stessa del Consiglio di Giustizia). Aveva lasciato viceversa riemergere l’antica connotazione urbana e patrizia di quel ceto: una connotazione che si sarebbe accentuata con la riorganizzazione dei locali Collegi dei dottori nei primi anni dell’et� spagnola. inoltre si costitu� un Consiglio di governo proprio della citt�. Milano aveva avvertito da tempo l’aspirazione – varie volte espressa nel periodo del governo visconteo-sforzesco, e poi con l’avvento dei Francesi – ad avere organi propri di governo municipale, eletti dai cittadini: un diritto che, come si ricordava nel 1502 a Luigi XII, possedevano "fere omnes Italiae civitates", autorizzate a creare "ex civibus suis presidentes qui publice utilitati preessent et providerent", un’aspirazione che nella citt� ambrosiana non aveva mai potuto realizzarsi.
Nel secondo decennio del Cinquecento si costitu� un consiglio di sessanta membri (dieci per ognuna delle sei porte della citt�, secondo la riforma del Lautrec del 1518) che assunse poi il nome di Consiglio generale dei sessanta nobili Decurioni, e che sarebbe divenuto l’espressione organica e il luogo di formalizzazione del patriziato cittadino. Sotto il segno prevalente del patriziato, infatti, si esprimeva la rivendicazione dell’autonomia urbana, come anche più oltre vedremo, in consonanza del resto con linee di tendenza comuni a gran parte della societ� italiana. I decenni a cavallo tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, dunque, se furono testimonianza del fallimento, o dell’impossibilità della restaurazione di uno stato sovrano, permisero anche di vedere l’organizzarsi della societ� politica urbana in quelle istituzioni che sarebbero state protagoniste della storia di Milano per tutta l’et� spagnola (Chittolini, 1996).


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Milano nell'orbita spagnola

la Chiesa e la religione



da "Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo" 1998, Cariplo, Milano - Ed. Arti Grafiche Amilcare Pizzi



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