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Milano nell'orbita
spagnola
Francesco Sforza, che
era stato sempre cagionevole di salute, tanto che più volte se
ne era predetta la morte imminente, morì infine nella notte fra
il primo e il due novembre 1535, a soli quarant'anni di età. Gli
furono tributati onori funebri solenni; e subito un'ambasceria di milanesi
mosse per raggiungere Carlo V, che si trovava a Napoli, per invitarlo
a prendere possesso del Ducato, in assenza di eredi diretti e legittimi,
e a conferire l'ufficio di luogotenente cesareo ad Antonio de Leyva, che
già da qualche tempo si trovava a Milano come rappresentante dell'imperatore.
Non raggiunse mai Napoli il fratellastro del duca defunto, Gian Paolo,
marchese di Caravaggio, figlio di Ludovico il Moro e della sua amante
Lucrezia Crivelli, che aveva anch'egli cercato di raggiungere l'imperatore
con l'illusoria speranza di farsi concedere l'investitura del Ducato:
la peste, o forse il veleno, lo sorpresero in viaggio a Firenze, dove
morì in pochi giorni. Iniziava così una dominazione spagnola
che si sarebbe protratta per oltre centosettant'anni . Per verità
l'appartenenza di Milano alla Spagna restò ancora incerta per circa
un decennio: nell'entourage di Carlo V si riteneva che l'investitura del
Ducato a un parente di Francesco I di Francia avrebbe potuto favorire
una pace duratura fra Asburgo e Valois. Solo nel 1546, in seguito alla
morte del figlio di Francesco I, Carlo duca d'Orléans, l'imperatore
concesse l'investitura del Ducato (con un atto rimasto per allora segreto)
al proprio figlio diciannovenne Filippo, futuro Filippo II.
Quando nel 1554 Filippo
assunse formalmente il titolo di duca di Milano (e con la pace di Cateau-Cambrésis,
del 1559, la Francia dovette rinunciare definitivamente alle sue pretese)
erano ormai definite le istituzioni di governo della città e dello
Stato, per effetto soprattutto delle Nuove Costituzioni del 1542 e degli
Ordini di Worms del 1545. Dopo i conflitti che nei primi anni soprattutto
avevano contrapposto il governatore, l'energico Ferrante Gonzaga, rappresentante
dell'autorità regia e responsabile dell'amministrazione civile
e militare, al Senato milanese, la massima magistratura lombarda, si giunse
a una più precisa definizione delle sfere di competenza dei rispettivi
poteri, e dei modi di provvista delle cariche. Spagnoli sarebbero stati
il governatore, il gran cancelliere e alcuni pochi senatori e membri delle
maggiori magistrature (oltre ai castellani delle fortezze e delle piazzeforti);
ai milanesi e ai lombardi restavano tuttavia la maggioranza dei posti
in Senato e le cariche delle altre principali magistrature statali, che
conservavano una sostanziale autonomia nell'amministrazione della giustizia
e nelle questioni di governo locale (anche se ciò non poneva un
freno alla crescente pressione fiscale, che portò all'imposizione
del famigerato "mensuale" e all'avvio, nel 1543, di un "censimento
generale" delle terre di tutto lo Stato).
Restavano ovviamente
affidate agli Spagnoli le cariche militari. E alla preoccupazione della
difesa della città si dovette il più rilevante intervento
urbanistico di questo periodo, la costruzione delle mura, o, per meglio
dire, il completamento e la sistemazione delle fortificazioni periurbane
cui già in età francese si era posto mano attivamente. La
superficie compresa all'interno delle nuove mura veniva a occupare 800
ettari (oltre 200 in più rispetto a quella compresa nelle mura
medievali); e il tracciato della nuova cinta, grosso modo circolare, aggiungeva
un altro cerchio concentrico alla pianta della città, con le sue
lunghe strade radiali che dal vecchio nucleo romano conducevano alle nuove
porte, ma che vedevano un netto diradarsi della maglia edificata nelle
fasce più esterne, dove abbondavano orti, giardini, campi coltivati.
Oltre che nelle fortificazioni, la presenza degli Spagnoli si manifestava
in numerosi altri segni esteriori, che un'attenta politica artistica,
promossa già dal governatore Ferrante Gonzaga, veniva disseminando
per la città, a celebrazione dell'immagine del potere asburgico:
dai grandiosi apparati, anche se effimeri, costruiti per le entrate e
le cerimonie solenni (nel 1541, per l'ingresso di Carlo V, venne chiamato
Giulio Romano, che realizzò una serie di archi trionfali riccamente
decorati dalla Porta Romana sino al Duomo), ai numerosi progetti urbanistici
e architettonici (per la sistemazione del palazzo Ducale come per la costruzione
della Villa Simonetta), alla statuaria imperiale di Leone Leoni.
I nuovi tratti spagnoli non cancellavano tuttavia l'antica fisionomia
della città, né i caratteri della vita ambrosiana. Milano
conosceva anzi un nuovo periodo di crescita e di espansione, sia per il
numero degli abitanti, sia per le attività economiche. Dopo il
1530 la prospettiva di un assestamento della situazione italiana e del
ritorno di una pace stabile indusse aspettative favorevoli. Si riavviava
anche il motore dell'espansione demografica; se agli inizi degli anni
Quaranta del Cinquecento la città contava circa 80.000 abitanti,
e appariva in ripresa già rispetto al decennio precedente, agli
inizi del Seicento - nonostante la peste del 1576, che avrebbe provocato
la morte di 17.000 persone - il numero degli abitanti era di 130.000.
E l'economia cittadina si accingeva a partecipare appieno a quella rinnovata
fase di espansione del maturo e tardo Cinquecento che è stata definita
l'estate di San martino dell'economia italiana. Se dopo la crisi degli
anni Venti e Trenta del XVI secolo il governatore Antonio de Leyva confessava
che "non era possibile di cavar contribuzione da Milano", per
il calo degli abitanti e il ridursi delle "fazende", già
poco dopo l'inizio del governo spagnolo l'ambasciatore veneziano Andrea
Minucci scriveva che "ogni casa era piena di botteghe e di arti,
abbondantissima di ogni sorta di merci e di vettovaglie, certo più
che tutte le città d'Italia", comprese Roma e Venezia (De
Maddalena, 1993). A questa crescita demografica e alla prospettiva della
città e del territorio contribuiva largamente l'agricoltura, che
con l'abbondante produzione di grani e con l'allevamento del bestiame
assicurava l'approvvigionamento annonario della città e offriva
vantaggiose possibilità d'impiego ai capitali urbani. Ma ancora
maggiore ricchezza portavano le manifatture. Sostanzialmente risparmiate
dal fiscalismo spagnolo - che non riuscì di fatto ad assoggettare
a imposizioni il "mercimonio" e le ricchezze immobiliare -,
non ancora gravemente impacciate dalla rigidezza dei meccanismi corporativi,
capaci anzi di attirare investimenti notevoli, sostenute da una domanda
crescente, soprattutto da parte dei ceti opulenti che amavano proclamare
la loro ricchezza, esse conobbero un forte sviluppo, in particolare nella
produzione tradizionale delle armi e dei metalli lavorati ("officina
de Vulcano" avrebbe definito Milano il Cervantes), di merci pregiate
e generi di lusso per l'arredamento e l'abbigliamento (industria serica
e auroserica, oreficeria, cristalleria, ebanisteria). nei calcoli per
l'imposizione di una "tassa sul mercimonio" (che poi non venne
introdotta) si valutava che delle sessantadue corporazioni d'arti e mestieri
censite a Milano nel 1580 la sola "arte dei mercanti de oro et de
seta" produceva quasi un quinto della ricchezza complessiva. La stessa
appartenenza di Milano al grande Impero spagnolo favoriva del restyo la
presenza di mercanti e merci milanesi su diverse piazze europee appartenenti
all'Impero asburgico (dalla Spagna all'Austria, alle Fiandre).
Mercanti, appaltatori, finanzieri - che profittavano anch'essi delle opportunità
offerte dal governo spagnolo -, personaggi come i D'Adda o il Marino o
lo Zerbi, fondatore del banco di Sant'Ambrogio, compaiono così
come figure di spicco nella vita milanese in questi anni… E tuttavia
la caratteristica su cui gli storici hanno forse più insistito,
per la seconda metà del Cinquecento, è il progressivo definirsi
di un sistema sociale e di governo di tipo nobiliare e patrizio. Non era
assente nemmeno in precedenza l'idea di una nobiltà milanese, di
un ceto cui un numero limitato di famiglie soltanto poteva vantare di
far parte ereditariamente: una nobiltà originaria, sancita ad esempio
dall'appartenenza alla "Matricola nobilium familiarum Mediolani",
redatta nel secondo Trecento come base per l'attribuzione dei canonicati
della Cattedrale. Ma la spinta a una definizione più precisa e
"chiusa" del ceto dei nobili si accentuò allorchè,
di fronte a un signore e a un governo stranieri, si avvertì più
viva l'esigenza di stabilire criteri chiari per la definizione di un gruppo
sociale ben preciso che potesse presentarsi come esponente dell'aristocrazia
cittadina, abilitato a ricoprire le cariche più importanti e a
esercitare funzioni di rappresentanza e di governo; aspirazione cui del
resto corrispondeva l'esigenza degli Spagnoli di identificare con chiarezza
interlocutori adeguati cui riservare una preminenza sociale e politica
e con cui confrontarsi nella loro azione. Questo processo di chiusura
nobiliare non mancò di provocare contrasti, scontrandosi con la
tradizione sino ad allora prevalente nella vita milanese di apertura a
quei ceti e casati nuovi che si venivano affermando, ad esempio grazie
alla mercatura, alla finanza, alla professione notarile. Ancora nel 1574
una pronuncia del Senato stabiliva che non costituivano impedimento alla
nobilitazione attività quali quella del notaio, di procuratore,
di mercante "immatricolato", oppure l'esercizio della mercatura
dell'oro, dell'argento, della seta, della lana, o dell'arte del cambio:
"insomma criterio fondamentale appariva la ricchezza, comunque acquistata,
più che l'astenersi da qualunque professione che potesse recar
consè qualche apparenza di viltà" (Donati, 1993).
Ma di fronte a questi orientamenti prevalse un'ideologia più rigida,
meno incline ai compromessi, e consonante invece con la mentalità
nobiliare spagnola: una tendenza a una "chiusura di ceto", alla
definizione di regole assai severe per il riconoscimento di quel rango
nobiliare che era poi condizione per l'accesso al Consiglio dei Decurioni
e ai Collegi dei Fisici e dei Giureconsulti, ai seggi del Senato e alle
principali magistrature. Verso la fine del secolo così i criteri
di definizione si irrigidirono, con l'esclusione ad esempio di coloro
il cui padre, o il cui avo, avesse esercitato qualche genere di mercatura,
il notariato, l'architettura, l'agrimensura: esercizi che "sebbene
non si ritenga deroghino alla nobiltà secondo le consuetudini della
patria, tuttavia sembrano recare in sé una presunzione contraria".
E i segni del predominio patrizio nella vita cittadina si resero ben presto
evidenti, così nel controllo delle cariche e degli uffici, come
nelle manifestazioni insieme reali e simboliche di tutto uno stile di
vita che, nei palazzi grandiosi, negli arredamenti, nelle gallerie di
ritratti degli antenati, nelle feste, nei modi della vita quotidiana,
nelle villeggiature, intendeva affermare la propria preminenza sociale
e politica (Donati, 1993).
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indice
gli ultimi decenni del
dominio sforzesco
l'alternarsi
delle
dominazioni nei primi
decenni del Cinquecento
Milano
nell'orbita spagnola
la
Chiesa e la religione
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